Molta stampa italiana si è schierata con la versione russa dell’intervista di Biden a Stephanopoulos. In realtà, il presidente Usa non ha mai detto “Putin è un assassino”. L’antiamericanismo e l’avversione alla democrazia restano trasversali alle culture politiche italiane. Intanto, la Cina è da tempo il vero concorrente degli Usa, e Putin sa che non può tirare troppo la corda. L’analisi di Gregory Alegi
Quando Joe Biden indica la luna, i putiniani guardano il dito. L’enfasi data dalla stampa italiana, soprattutto di destra, all’intervista del neopresidente a George Stephanopoulos sulla ABC parla più della definizione di Vladimir Putin come “assassino” che dei suoi perché. Dal “Fermate quel pazzo alla Casa Bianca” di Marcello Veneziani al “pupazzo con l’Alzheimer” che si può rinvenire su una qualunque pagina Facebook, quella battuta ha trovato più spazio sulla stampa italiana che in ogni altro Paese, Russia esclusa. Negli Stati Uniti, il Washington Post pubblica un lancio dell’Associated Press, e il New York Times preferisce un lungo pezzo sui rapporti con la Cina. In Italia, titoli e commenti incentrati sui giudizi e le reazioni russe. Una discrepanza che fa riflettere.
Ma iniziamo con i fatti. La battuta giunge a circa due terzi di una lunga intervista incentrata su Covid, misure a sostegno dell’economia e aumento delle tasse sui redditi oltre i 400.000 dollari. A quel punto Biden risponde “Uh-huh, sì” alla domanda dell’intervistatore: “Così lei conosce Vladimir Putin. Pensa sia un killer?”. Chi virgoletta le parole “Putin è un assassino”, come se Biden le avesse pronunciate sbaglia. Così come sbagliò a suo tempo il Washington Post attribuendo a Trump la frase “trova la frode” in una conversazione sulle elezioni in Georgia con l’investigratrice Frances Watson. (Disse, in realtà, “troverà cose che saranno incredibili – la disonestà”. Due mesi dopo, con la pubblicazione dell’audio integrale sul Wall Street Journal, il Post ha fatto pubblica ammenda). Per quanto le sintesi possano essere efficaci, non si possono virgolettare come citazioni. Sia che le dica Trump, sia che le dica Biden.
LA DOMANDA SCOMODA
Non sappiamo se la domanda fosse concordata. Per il modo incidentale con cui viene posta, e per la risposta altrettanto frettolosa data di Biden, parrebbe piuttosto un inciso. Non v’è dubbio che sia ruvida e sgradevole, soprattutto alle orecchie russe, ma è lecito immaginare che se fosse stata concordata sarebbe stata posta direttamente ed avrebbe avuto una risposta più articolata, come le altre. Biden, d’altra parte, non fa mistero di non amare l’approccio di Putin. Ammette senza problemi non solo di averlo incontrato a quattr’occhi, ma di avergli detto esplicitamente che “non ha un’anima”, ricevendone per risposta un “allora ci capiamo”.
Di sicuro, Stephanopolous fa domande scomode. Già nel 2016 aveva incalzato l’allora candidato Trump sui suoi rapporti con Putin, senza ottenere la conferma di vanterie che aveva fatto in precedenza. Appena due anni fa, il giornalista chiese al presidente Trump se avrebbe accettato dalla Russia informazioni sugli avversari nelle presidenziali 2020. Trump rispose di sì, distinguendo tra informazioni e interferenza. Non è un caso che in seguito abbia sempre minimizzato le sgradite conclusioni dell’intelligence americana, che sfidava il presidente dichiarandosi convinta di avere le prove del supporto russo per il candidato repubblicano. Sull’interferenza russa, tuttavia, i media italiani si soffermano poco. Senza il contesto, la risposta interlocutoria di Biden diventa quindi il centro dell’intervista, come invece non è.
IL NOSTRO UOMO A WASHINGTON
Anche senza l’improvvida risposta, è sempre stato chiaro che la linea di Biden nei confronti della Russia sarebbe stata diversa da quella di Trump. Già a febbraio erano state imposte sanzioni mirate a esponenti della nomenklatura russa, per esempio. Se vogliamo, è sempre stato evidente che nessun altro presidente statunitense da Truman in avanti aveva lasciato tanto spazio e iniziativa all’Urss e alla Russia quanto Trump. Basti ricordare che nel 2018 si era detto disposto a consegnare a Putin Bill Browder. Per chi non lo ricordasse, Browder è il finanziere nipote dell’ex Partito Comunista Usa, diventato implacabile avversario dei russi dopo l’assassinio di Stato di Sergei Magnitsky, alla cui memoria è intitolata una legge che penalizza i responsabili russi dell’omicidio. Una posizione tanto sconcertante quanto tecnicamente impossibile, avendo Browder frattanto optato per la cittadinanza britannica.
I sostenitori italiani dell’ex presidente attribuiscono le sue aperture a una visione innovativa. I detrattori americani sottolineano, con una pletora di documenti, gli equivoci rapporti, non solo finanziari, fra Trump e una moltitudine di soggetti russi di dubbia reputazione. L’ambizione di costruire una Trump Tower a Mosca e altre iniziative d’affari dell’ex immobiliarista sono state anch’esse ampiamente descritte in libri come House of Trump, House of Putin (2018) e American Kompromat (2021). C’è addirittura chi si è spinto a descrivere Trump come il “candidato manciuriano”, il mitico infiltrato russo che riesce a farsi eleggere presidente Usa descritto nel romanzo di Richard Condon del 1959 (e nei film del 1962 e 2004).
In effetti, candidato manciuriano o no, Trump ha sempre evitato di pestare i piedi ai russi, senza mai condannare le azioni contro gli avversari politici (basti pensare ad Aleksei Navalny) o gli attacchi informatici (si pensi al recente caso Solar Winds), cercando ovunque possibile di sviare l’attenzione verso la Cina. I russi hanno sempre saputo che se Trump non fosse stato rieletto, avrebbero perso per sempre il loro uomo a Washington – e la sua capacità di nominare o rimuovere le persone giuste dai gangli vitali dell’intelligence Usa.
UNA BATTUTA, UNA POLITICA
Dal 1945 il problema dei rapporti con Mosca è centrale alla politica estera Usa. La caduta del Muro ha portato ad alti e bassi, spesso con percezioni opposte a Est e Ovest. Per la Russia lo status di grande potenza è diventato un puntello indispensabile di un’identità messa in difficoltà non solo dalla perdita dei satelliti europei (molti dei quali più antirussi di quanto sarebbe utile in prospettiva futura), non solo dall’indipendenza di importanti repubbliche ex sovietiche (basti pensare all’Ucraina), non solo da un’economia ancora troppo legata più alle ricchezze naturali che all’industria o ai servizi ma anche dall’emergere della Cina come vero concorrente globale degli Usa. Persino il vaccino Sputnik V, per quanto apparentemente efficace, sconta enormi difficoltà nel raggiungere i livelli di produzione necessari per soddisfare anche solo le esigenze interne.
I dati mostrano che gli Stati Uniti pesano per circa un quarto del Pil e oltre un terzo delle spese militari mondiali. Subito dopo viene la Cina (circa 15% e 13% rispettivamente). La Russia segue a distanza, con circa l’1,8% del Pil, meno cioè dell’Italia, e il 4% delle spese militari. Già nel 2011 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton aveva parlato di un pivot to Asia, ovvero di una “rotazione verso l’Asia” degli interessi americani. L’amministrazione Biden è in piena continuità, tanto che è proprio con la Cina che stanno per aprirsi non facili negoziati su temi politici ed economici.
La Russia fa la voce grossa per non essere marginalizzata in un gioco che si sta spostando dall’Europa Centrale al Pacifico, fino allo spazio. Sa di non poter tirare troppo la corda e fa affidamento sull’arsenale nucleare e il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza per mantenere un ruolo pubblico mentre quello sostanziale le sfugge ogni giorno di più. Biden, al contrario, è ragionevolmente convinto di poterla tirare. Le molteplici iniziative spaziali Usa renderanno presto possibile fare a meno delle Soyuz russe per andare sulla stazione spaziale internazionale. La nuova base lunare e le eventuali spedizioni marziane saranno fatte senza i russi. Che a quel punto non è chiaro con quali risorse potrebbero sostenere il proprio programma.
I RUSSI LO SANNO MEGLIO DEGLI ITALIANI
Di questo Putin è più consapevole dei suoi tifosi italiani. Se la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova aveva dichiarato a caldo che “Washington ha sostanzialmente spinto” le relazioni con la Russia “in un vicolo cieco negli ultimi anni” e tratteggiato il rischio di un “degrado irreversibile”, Putin è stato molto meno belligerante. “So che gli Stati Uniti, la leadership statunitense, è generalmente incline ad avere certe relazioni con noi, ma sulle questioni che interessano gli stessi Stati Uniti e alle loro condizioni”, ha detto il presidente russo. “Pensano che siamo uguali a loro ma siamo diversi. Abbiamo un codice genetico, culturale e morale diverso. Ma sappiamo come difendere i nostri interessi. E lavoreremo con loro, ma nei campi che ci interessano e alle condizioni che riteniamo vantaggiose per noi stessi. E loro dovranno tenerne conto”.
Quarant’anni fa, Ronald Reagan pose le condizioni per il crollo dell’Urss rilanciando una competizione militare che l’economia sovietica non poteva sostenere. Biden non è Reagan, ma la Russia non è l’Urss. La strada degli accordi tattici, slegati da una visione complessiva, appare quindi l’unica praticabile per non trasformare gli Stati Uniti nella stampella del claudicante regime putiniano. Alla cui leggendaria grandezza ormai crede più solo l’Italia, per la duplice eredità dei nostalgici dell’Urss (ai quali piace il pedigree Kgb) e del Ventennio (attratti dall’esplicito rifiuto della democrazia), tenuti insieme dall’antiamericanismo trasversale a tanta parte del paese.