Le prime fasi della presidenza Biden non sembrano molto promettenti. Alleati e avversari aspettano che Washington torni in campo negli scacchieri più delicati con pragmatismo e realismo, due elementi che nelle mosse preliminari di Joe Biden in politica estera sembrano abbastanza carenti. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Chi pensava che l’anziano neopresidente americano, già vicepresidente di Barack Obama, si presentasse sulla ribalta internazionale vestendo i panni del saggio e moderato statista che aveva vestito durante la campagna elettorale ha dovuto rivedere il suo giudizio.
A poche settimane dal suo insediamento alla Casa Bianca, Joe Biden ha riportato bruscamente gli Stati Uniti sulla scena del Medio Oriente con una duplice mossa politico – militare che ha suscitato non poche perplessità e proteste negli Stati Uniti e all’estero.
La prima mossa a sorpresa decisa, come ha sottolineato il portavoce del Pentagono John Kirby, direttamente dal presidente è stata quella di ordinare un bombardamento aereo contro due basi di miliziani ritenuti vicini a Hezbollah e all’Iran situate in Siria, nei pressi del confine con l’Iraq.
Nell’attacco, sferrato nella notte del 25 febbraio, sarebbero morte tra le 22 e le 27 persone, non si sa se miliziani o civili.
L’ordine di colpire le milizie filo iraniane è stato motivato da Biden con l’esigenza di reagire a un attentato compiuto a Erbil, nel Kurdistan iracheno, agli inizi di febbraio contro una base logistica dell’esercito americano, a seguito del quale ha perso la vita un impiegato filippino della base stessa.
Il portavoce del Pentagono, Kirby, nel commentare l’episodio ha sostenuto che “gli attacchi aerei hanno distrutto capannoni ed edifici usati al confine dalle milizie filo iraniane Kathaib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhaba e hanno trasmesso un messaggio non ambiguo: il presidente Biden agirà sempre per proteggere il personale americano. Nello stesso tempo l’azione vuole perseguire in modo deliberato l’obiettivo di ridurre la tensione (de-escalate) sia nella Siria orientale che in Iraq”.
A parte il fatto che suona ambiguo voler giustificare un attacco a sorpresa sul territorio di uno Stato (ancora) sovrano come la Siria con l’esigenza di “ridurre la tensione” nell’area, l’iniziativa di Biden ha suscitato, a parte le scontate proteste del governo di Damasco, non poche perplessità anche negli Stati Uniti.
Mentre infatti molti senatori e deputati repubblicani hanno approvato l’azione del presidente democratico perché, come ha sostenuto il senatore repubblicano Pat Toomey “Biden ha il diritto di rispondere con le armi ai recenti attacchi appoggiati dall’Iran contro interessi americani”, esponenti del suo stesso partito non hanno nascosto critiche e perplessità perché il capo della Casa Bianca non avrebbe rispettato le prerogative esclusive del Congresso in tema di “azioni di guerra”.
Il senatore democratico Tim Kane è stato molto duro ed esplicito: “Un’azione militare offensiva senza l’approvazione del Congresso è incostituzionale”. Il collega dello stesso partito, Chris Murphy, ha dichiarato alla Cnn che ”gli attacchi militari richiedono l’autorizzazione congressuale. Noi dobbiamo pretendere che questa Amministrazione si adegui agli stessi standard di comportamento che abbiamo preteso dalle precedenti amministrazioni… Pretendiamo che vi siano sempre giustificazioni legali per ogni iniziativa militare americana, specialmente in un teatro come la Siria, dove il Congresso non ha autorizzato alcuna iniziativa militare”.
Per sottolineare l’incongruenza della giustificazione della Casa Bianca secondo cui gli attacchi sarebbero serviti a “ridurre la tensione” nell’area, il deputato democratico Ro Khanna ha rincarato pubblicamente la dose delle critiche sostenendo che “Noi dobbiamo tirarci fuori dal Medio Oriente. Io ho parlato contro la guerra senza fine di Trump e non starò zitto ora che abbiamo un presidente democratico”.
Le critiche a Biden, come si vede, sono state dure e molto esplicite segnando la fine prematura della “luna di miele” tra presidenza e Congresso che, nella tradizione di Washington, segna i primi cento giorni di ogni nuova amministrazione.
La prova di forza militare di Biden appare segnata non solo dai dubbi di costituzionalità sollevati da importanti esponenti del suo stesso partito, ma anche dalla contraddittorietà delle motivazioni e delle giustificazioni.
Secondo la Casa Bianca per ridurre la tensione in Siria occorre mandare i bombardieri, ferma restando l’esigenza di “mandare un segnale” minatorio all’Iran, proprio nel momento in cui lo stesso presidente dichiara di voler riaprire con Teheran il “nuclear deal”, il dialogo sul nucleare bruscamente interrotto dal suo predecessore.
Insomma, le mosse di apertura del neopresidente sullo scacchiere mediorientale non appaiono discostarsi eccessivamente da quelle dei suoi predecessori che, come lui, hanno pensato che l’azione militare anche sanguinosa e brutale, possa sempre essere considerata un’opzione utile come surrogato della diplomazia.
Ma questa azione militare appare poco giustificabile nelle motivazioni se è vero che Biden intende ridurre la tensione nelle relazioni con l’Iran, rese sempre più tese da iniziative come quelle del suo predecessore, Donald Trump, che all’inizio dello scorso anno ordinò l’assassinio del più alto esponente della gerarchia militare iraniana, Qassem Soleimani, colpito da un drone nei pressi di Baghdad.
La seconda delle mosse di Biden che, in un teatro delicato e sensibile come il vicino Oriente appare quantomeno intempestiva, è stata quella di autorizzare la Cia a declassificare il report sull’assassinio del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 nei locali del consolato di Riad in Turchia.
Il rapporto della CIia accusa senza mezzi termini il principe ereditario Mohammed Bin Salman di essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente e la sua divulgazione, autorizzata da Biden, ha suscitato una tempesta di polemiche dentro e fuori gli Stati Uniti, mettendo seriamente in discussione il rapporto strategico tra Washington e Riad che negli anni è stato faticosamente costruito al duplice scopo di controbilanciare la presenza e l’influenza dell’Iran in Libano, Siria e Iraq e di controllare le pulsioni estremiste di ricchi e pericolosi partner regionali come il Qatar.
Il principe Bin Salman, ormai stabilmente assiso sulla poltrona di unico erede al trono saudita, è un interlocutore obbligato degli Stati Uniti.
Invano (e incautamente) il presidente Biden ha pubblicamente dichiarato di preferire un dialogo diretto con il re Salman. Ma l’anziano sovrano (85 anni) non solo non è in buone condizioni di salute, ma ha chiaramente detto agli americani di avere la massima fiducia nel “suo unico e legittimo erede” al quale ha già di fatto delegato la gestione degli affari del Regno.
L’amministrazione Biden, e il suo nuovo Segretario di Stato, Antony Blinken, non hanno mai fatto mistero di preferire come potenziale interlocutore un altro principe della corona, Mohammed Bin Nayef, molto vicino alla Cia grazie ai buoni uffici dell’ex capo dei servizi segreti sauditi, Saad Al Jabry, ma nel mondo complicato della corte di Riad le faccende non procedono sempre nel modo semplice e lineare preferito dagli americani.
Mohammed Bin Najef è attualmente in prigione per accuse di corruzione ed è quindi definitivamente fuori dalla gara per l’ascesa al trono mentre il suo collegamento con la Cia, Al Jabry, si è autoesiliato in Canada per sfuggire alle “persecuzioni” che a suo avviso sono state orchestrate dai cortigiani di Riad.
Se Washington vuole continuare ad avere un ruolo in Medio Oriente e magari a esercitare una funzione stabilizzatrice in uno scacchiere che, ricordiamolo, è stato fortemente destabilizzato dalla disgraziata avventura irachena di George W. Bush, che ha di fatto consegnato l’Iraq agli sciiti vicini ai “fratelli” iraniani e dato a Teheran le chiavi per il controllo del Golfo Persico, il presidente e il suo Segretario di Stato dovranno farsi forti di una buona dose di realismo politico, lasciando fuori dal dialogo con Riad quelle considerazioni etiche che, pur giustificate, non sembrano opportune anche perché l’America non sembra essersi mai fatta molti scrupoli quando si è trattato di eliminare fisicamente i propri “avversari” con metodi molto sbrigativi, siano essi un generale iraniano o una ventina di miliziani siriani non meglio identificati o loro familiari.
Insomma, le prime fasi della presidenza Biden non sembrano molto promettenti. Alleati e avversari aspettano che Washington torni in campo negli scacchieri più delicati con pragmatismo e realismo, due elementi che nelle mosse preliminari di Joe Biden in politica estera sembrano abbastanza carenti.