I punti focali della riforma che sta mettendo a punto il ministro sono la necessità di competenze nuove, il focus sui dipendenti intesi come capitale umano, la formazione, la digitalizzazione, i processi e la coesione cioè il rapporto di reciproca fiducia tra gli stakeholder. Ecco però quali sono i rischi che il ministro dovrà superare
Il ministro Renato Brunetta ha preso il toro della riforma dell’amministrazione per le corna: ha incontrato il presidente dell’Anci (associazione nazionale comuni italiani) De Caro concordando sulla necessità di assumere a grande velocità diverse decine di migliaia di dipendenti per far fronte alle necessità operative dei comuni anche in vista del Next Generation Eu; ha presentato al Parlamento lo schema degli interventi di riforma della Pa agganciati al più generale Pnrr e mercoledì 10 marzo ha sottoscritto, insieme al presidente Draghi, con i sindacati un patto per il lavoro pubblico e la coesione sociale. I punti focali sono la necessità di competenze nuove, il focus sui dipendenti intesi come capitale umano, la formazione, la digitalizzazione, i processi e la coesione cioè il rapporto di reciproca fiducia tra gli stakeholders. Questi sono i punti cruciali. Vediamo quali sono i rischi che il ministro dovrà superare, cavalcando la tigre in corsa.
Il prof. Renato Ruffini, dell’università di Milano, sta conducendo una ricerca sul reclutamento nella Pa da cui risulta che gli enti (locali e centrali), a seguito dei vari blocchi del turn over realizzati per motivi budgetari, sono al lumicino e sono disposti a reclutare chiunque, indipendentemente dalle competenze possedute. Ma la necessità di reclutare svariate migliaia di dipendenti in pochissimo tempo (mesi, se non settimane) non dovrebbe andare a discapito della competenza, soprattutto di competenze innovative rispetto a quelle rintracciabili tradizionalmente nella nostra amministrazione. Qui alcune esperienze di alcuni partner europei potrebbero essere fonte di ispirazione. Si tratta di mettere a punto una griglia di profili professionali declinati in termini di “saperi”, “saper fare” e “saper essere” in modo da poter creare delle liste di idonei da cui gli enti possano pescare le risorse umane di cui hanno bisogno. Qui citiamo i referentiels metiers dell’amministrazione francese (ne hanno tre, uno per l’amministrazione statale, uno per le amministrazioni locali ed uno per la sanità) e il dictionnaire des compétences de l’administration belga. Rammentiamo pure l’esperienza maturata dalla Regione Toscana alla fine degli anni ‘90, quando adottò questo approccio (che in buona sostanza si rifà all’approccio delle “famiglie professionali” del metodo della gestione delle competenze) per adeguare le proprie risorse umane alla massiccia delega di competenze determinata dalla legge 59 del 1997, la Bassanini 1) elaborando una griglia di profili professionali strutturata secondo i principi della gestione delle competenze (la griglia è reperibile al sito www.crogef.it, documenti da scaricare, profili professionali regioni/province, o profili professionali comuni).
Il reclutamento va accoppiato alla formazione: molti partner europei hanno maturato la consapevolezza che, all’entrata, il neo reclutato ha bisogno di imparare le prassi in vigore nell’amministrazione e le tecniche specialistiche necessarie nel settore di intervento. I francesi e i tedeschi hanno sistemi di formazione/reclutamento ad hoc, interessanti ma di difficile realizzazione in tempi brevi. Il caso belga accoppia il reclutamento secondo il sistema delle griglie professionali citato sopra con un percorso di formazione, per lo più on line, da realizzare durante il primo anno di servizio, anno durante il quale si è “in prova”. Il sistema sembra essere implementabile in tempi rapidi.
Un ulteriore snodo critico relativo alle competenze e alla formazione riguarda il rischio di confondere “saper fare” con “saper essere”. Le nuove competenze cui hanno fatto riferimento nei loro annunci sia il ministro Brunetta che il presidente Draghi sono in buona parte quelle competenze che vengono definite come competenze trasversali. Qui il rischio è quello di confondere le competenze trasversali esclusivamente con competenze di tipo socio-psicologico.
Più di dieci anni di collaborazione con l’Istituto di Studi Militari Aeronautici mi hanno convinto che solo una minima parte delle competenze trasversali sono di tipo socio-psicologico. A esse vanno aggiunte competenze quali ad esempio, nel settore della comunicazione, saper profilare come canalizzare le proprie comunicazioni (per evitare enormi perdite di tempo sul versante di chi riceve la comunicazione), nel settore della leadership il “saper far fare”, cioè saper distillare gli snodi interattivi delle varie unità organizzative che realizzano le componenti dell’output finale, per saper fare la qual cosa è necessario avere una solida formazione metodologica.
Qui bisognerebbe evitare di promuovere la creazione di quadri “empatici” che, concretamente, sanno solo galleggiare sulle situazioni senza essere di aiuto ai loro collaboratori. Qui va elogiato il fatto che il Dipartimento della Funzione Pubblica ha già in corso un rapporto di collaborazione con lo European Institute of Public Administration di Maastricht mirante proprio a passare in rassegna i vari sistemi di reclutamento e formazione in uso presso i nostri partner europei.
Un ulteriore snodo critico è rappresentato dalla digitalizzazione. Più volte su questa testata abbiamo rimarcato che non ci può essere digitalizzazione se il metodo di lavoro non è stato innanzitutto proceduralizzato, reingegnerizzato. Per poter proceduralizzare il metodo di lavoro bisogna rimuovere due vincoli giuridici anacronistici: la separazione tra responsabile di procedimento e responsabile di provvedimento (art. 5 comma 1 legge 241 del 1990) e l’obbligo di far firmare tutti gli atti a valenza esterna al dirigente (art 17 del Dlgs 165/2000 testo unico sul pubblico impiego). Qui è necessaria una stretta collaborazione con i sindacati, perché si richiede ai funzionari di assumersi delle responsabilità che sin qui non avevano. Si richiede anche di far evolvere i rapporti all’interno dell’amministrazione creando un clima di collaborazione.
La reingegnerizzazione non è indispensabile solo per poter digitalizzare la nostra amministrazione. Passare ad una organizzazione per processi è indispensabile anche, e in prima linea, per poter passare ad una gestione del personale basata non sul controllo del tempo/presenza ma sul controllo del risultato. Questo punto è stato messo in evidenza dalle esperienze di telelavoro dovute al Covid19. La gestione della performance introdotta dal ministro Brunetta nel 2009 (Dlgs 150) ha sin qui trovato un intoppo difficile da superare dovuto alle separazione tra responsabile di procedimento e responsabile di provvedimento, per cui il responsabile di procedimento che realizza l’atto non lo firma e non si vede computato il lavoro relativo ai fini della produttività. Qui mi permetto di rammentare che lo European Institute of Public Administration con cui il Dipartimento della Funzione Pubblica già collabora ha maturato da più di 15 anni una metodologia atta ad accompagnare le amministrazioni che necessitano di reingegnerizzarsi. Come pure va rammentato che a suo tempo all’Inps e all’Inail si era realizzata con successo una maturazione di questo tipo e sarebbe opportuno imparare da queste due esperienze.
La gestione della performance richiama anche la necessità di un aggancio alla contabilità per missioni (a proposito a che punto sta la implementazione reale del Dlgs 91 del 2011 e 118 del 2011?), cioè il controllo del risultato deve essere accoppiato alla gestione delle risorse disponibili per ottenere il risultato auspicato. Che senso ha separare l’attività di controllo della gestione finanziaria realizzata dalla Corte dei Conti (in alcuni casi insieme al collegio dei revisori dei conti) dalla gestione degli obiettivi (monitorizzata dagli O.I.V.)? Anche qui va segnalato che esiste un rapporto di collaborazione con lo European Institute of Public Administration.
In chiusura voglio richiamare l’attenzione sul fatto che tutte le varie riforme della Pubblica amministrazione che sono state sin qui tentate non hanno mai toccato il tema del modello organizzativo delle nostre amministrazioni (centrali e territoriali) che è lo stesso dagli anni ‘80 dell’800 realizzato da Crispi e si basa esclusivamente sul meccanismo gerarchico. Forse per questo hanno dato risultati deludenti. Speriamo che sia la volta buona.