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Investimenti, armi e missioni. Ghiselli spiega i piani della Cina

Investimenti in difesa, missioni all’estero e basi oltre confine. Da anni la Cina rafforza la sua postura militare, con budget crescenti e maggior coordinamento tra le varie componenti della proiezione internazionale. Ne parliamo con Andrea Ghiselli, autore di “Protecting China’s interests overseas: securitization and foreign policy”

“Ambiziosa, ma cauta”. È la Cina che protegge i suoi interessi oltre i confini nazionali, con un’attenzione particolare a Medio Oriente e Africa, e un ambizioso piano di modernizzazione dell’intero strumento militare. Tutto segue un’unica leadership, in un coordinamento che Pechino rafforza da anni per aumentare l’efficacia della sua azione. A pochi giorni dal disvelamento di un budget militare da 209 miliardi di dollari (qui il focus), ne abbiamo parlato con Andrea Ghiselli, assistant professor presso la School of international relations and public affairs della Fudan University, a Shanghai, e responsabile alla ricerca del ChinaMed Project del TOChina Hub, autore per la Oxford University Press del libro “Protecting China’s interests overseas: securitization and foreign policy”.

La Cina ha reso noto il budget militare per il 2021, per un incremento del 6,8% rispetto all’anno precedente. Come interpretarlo? Quali sono gli obiettivi del piano di modernizzazione militare di Pechino?

Sicuramente l’aumento evidenzia l’importanza che l’ammodernamento delle Forze armate ha per Pechino, anche se sarei cauto nel leggerci segnali particolari. La trasformazione dell’Esercito di liberazione popolare in una forza moderna, alla pari con quelle occidentali, è uno degli obiettivi principali della leadership cinese da ben prima di Xi Jinping.

Perché?

È sia di una questione di prestigio, domestico e internazionale, sia, ovviamente, una necessità dettata dalla percezione di un costante peggioramento della situazione in Asia, soprattutto a causa del peggioramento delle relazioni con gli Stati Uniti negli ultimi anni. Inoltre, è bene notare che stime dell’International institute for strategic studies indicano che l’aumento dell’inflazione fa sì che, in realtà, la crescita del budget sia minore che nel 2020. Sempre in confronto con il 2020, anno in cui l’economia era praticamente in stallo (se non in recessione vera e propria) a causa del virus Covid-19, l’aumento appena deciso avviene in un contesto di forte crescita economica. Sempre da un punto di vista comparativo, anche se bisogna tenere a mente che includono elementi diversi, il budget militare cinese ufficiale per il 2021 è di poco meno di 210 miliardi di dollari mentre quello americano approvato nel 2021 era superiore ai 700 miliardi di dollari. Quindi, l’aumento è sì importante, ma non credo sia da considerare eccezionale. Onestamente, mi sarei sorpreso molto di più se non fosse aumentato, o se fosse aumentato di meno.

Nella sua pubblicazione “Protecting China’s Interests Overseas: Securitization and Foreign Policy”, descrive una Cina “ambiziosa ma cauta” nella protezione dei suoi interessi oltre i confini. Che significa?

L’ambizione è sicuramente quella di una grande potenza, decisa a giocare un ruolo nelle questioni di sicurezza anche fuori dalla propria regione e a proteggere i propri interessi sempre più globali, due cose che spesso, anche se non sempre, coincidono. La cautela, invece, è dettata da vari fattori. C’è sicuramente l’inesperienza e la mancanza di capacità per proiettare sostanziale forza militare fuori dall’Asia. Un altro elemento importante è la consapevolezza del rischio di rovinare una reputazione costruita nel tempo anche grazie il porre l’accento sul fatto che la Cina, differentemente dagli Stati Uniti, non interviene militarmente fuori dai propri confini se non sotto l’egida dell’Onu. Ciò è soprattutto vero in Africa e Medio Oriente.

In tale quadro, è effettivamente cresciuta la componente militare della Cina oltre i suoi confini?

L’Asia rimane il baricentro della diplomazia e della difesa cinese. Una crescita delle tensioni lì non può che mettere in secondo piano altri progetti. Per questi motivi, la presenza militare cinese all’estero, soprattutto in Africa e Medio Oriente, è cresciuta sia in termini quantitativi che qualitativi, basta pensare alla base a Gibuti e alle unità di fanteria fra i peace-keeper in Mali e Sudan del Sud, ma rimane in un contesto multilaterale e estremamente limitata in confronto ad altri Paesi come Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Inoltre, questa evoluzione non ha, per ora, comportato un aumento dell’intensità delle operazioni condotte dai militari cinesi che è estremamente ridotta. In generale, la forza militare è considerata uno degli strumenti a disposizione della politica estera cinese anche fuori dall’Asia. L’uso delle forze armate è una delle opzioni che i decisori cinesi vogliono avere a disposizione, ma sicuramente non è quella preferita.

Lei descrive anche “la forza delle crisi” nell’adattamento cinese della postura esterna. Che vuol dire?

La crisi libica del 2011, quando 36mila cinesi sono stati evacuati dal paese nordafricano, ha avuto un impatto importantissimo, forzando il governo cinese a riconsiderare in maniera importante il ruolo delle Forze armate nella politica estera del loro Paese. Senza di essa non sono sicuro che ci sarebbe una base cinese a Gibuti oggi. La Cina al momento è sicuramente più pronta ad affrontare crisi simili, ma la diplomazia cinese rimane improntata a prevenire situazioni d’emergenza.

A proposito, in Medio Oriente e Africa sembra concentrarsi una particolare attenzione cinese. È così?

Che la presenza militare cinese all’estero si sia sviluppata soprattutto in Africa e Medio Oriente è dovuto ad un mix di necessità e possibilità. Da un lato, in quelle regioni c’è un numero importante di cittadini cinesi. Per esempio, secondo i dati raccolti dal ChinaMed Project (che possono essere considerati come stime al ribasso del numero reale), alla fine di ogni anno fra il 2011 e il 2018, quindi dopo la Primavera araba, c’erano in media 80mila cinesi in nord Africa e nel Corno d’Africa impiegati in progetti ingegneristici e d’edilizia. In certi anni sono stati registrati dei picchi di oltre centomila persone. Come sappiamo tutti, purtroppo, quelle regioni rimangono altamente instabili. È normale, quindi, che la diplomazia e la difesa cinesi guardino con attenzione a quei luoghi. Allo stesso tempo, l’Onu è coinvolta in maniera importante in quelle regioni attraverso varie missioni di peace-keeping o autorizzate dal Consiglio di sicurezza. Ciò garantisce alla Cina, membro permanente del Consiglio di sicurezza, un’opportunità molto importante di poter sviluppare una propria presenza militare diplomaticamente accettabile, i cui costi economici e umani sono molto ridotti rispetto a interventi unilaterali.

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