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Draghi e Macron vogliono un Recovery extra-large? L’avvertimento di Cipolletta

L’economista e presidente di Assonime: giusta l’idea di un piano di aiuti europeo dalle spalle più larghe, il problema però è riscrivere le regole e mettere di nuovo d’accordo 27 Paesi. Gli Eurobond sognati da Draghi? Sono già tra noi. E la politica industriale la fa il mercato, non i ministeri…

Sarebbe ora di un Recovery Fund formato piano Biden. Più soldi, più sostanza, più potenza di fuoco. L’opzione giusta per mettere definitivamente alle corde la pandemia e i suoi catastrofici effetti. Non è un caso che in Europa stia prendendo corpo l’asse Draghi-Marcon per un Recovery Fund dalle spalle decisamente più larghe, che possa in qualche modo ricalcare i due pacchetti messi in piedi dall’amministrazione Biden e che insieme valgono poco meno di 5 mila miliardi di dollari.

Eppure, al netto della condivisione nel merito, è più facile a dirsi che a farsi, spiega a Formiche.net Innocenzo Cipolletta, economista, un passato ai vertici di Confindustria e oggi presidente di Assonime, l’associazione delle spa.

Cipolletta, qualcuno in Ue vorrebbe un Recovery Fund più robusto. Ma non sarebbe meglio spendere bene quelli che si hanno già o i fondi già destinati all’Italia?

L’ideale, e non è solo una battuta, sarebbe avere più soldi e anche saperli spendere. Sono due cose che dovrebbero andare insieme, di pari passo. Credo che sia il presidente Macron, sia il premier Draghi abbiano detto una cosa giusta, all’Ue e alle nostre economie servono più soldi. Il problema è la fattibilità, al netto dell’opposizione di certa Germania, sponda destra.

Non basta un’intesa tra due Paesi fondatori per aumentare la gittata del Recovery Fund?

Temo che per rendere operativa tale scelta serva una riforma organica dei trattati. E sappiamo quanto sia difficile mettere insieme 27 Paesi. Diciamo che un Recovery Fund allargato e irrobustito è molto desiderabile ma poco fattibile. Peccato, perché servirebbero più risorse da mettere in campo. E un po’ meno procedure.

In che senso?

Ogni spesa va autorizzata dall’Ue, ogni investimento. Sono nuovi segni della sfiducia di Bruxelles verso i propri partner. Lo trovo sbagliato, ha poco senso. Se un progetto è buono nella sostanza ma errato nella forma si sistema, ma mi pare che l’Ue badi solo alla forma e poco alla sostanza. Magari a poter fare del Recovery Fund un piano alla Biden. Ma nella difficoltà di riuscirci, meglio lavorare sulle procedure e guardare un po’ di più alla sostanza.

Un Recovery Fund formato extra-large non avrebbe però ripercussioni sui debiti sovrani? Si tratta pur sempre di prestiti, almeno in larga parte…

Certo che ci sarebbe, il debito è un problema mondiale, mica solo italiano. Il problema dell’Italia è che un giorno in Europa qualcuno possa dire che Roma deve rientrare del debito contratto con l’Ue, allora sì che sarebbe un guaio. E pensare che fuori dell’Ue questa cosa non la dice nessuno, forse perché il debito legato al Recovery Plan è un debito buono, non tossico e non malsano. Debito per investire e sopravvivere.

A proposito di debito, il premier Draghi ha rilanciato gli eurobond, ovvero l’emissione di debito comunitario. Ci siamo vicini?

In realtà già ci siamo. Questo debito figlio del Recovery Fund, è già una forma di debito comunitario, perché sono prestiti dell’Europa concessi ai Paesi membri e finanziati con l’emissione di eurobond. Da qui a un titolo ordinario dell’Ue, come detto da Draghi, la strada è di fatto aperta. D’altronde, l’Europa si costruisce crisi dopo crisi. Stiamo facendo passi avanti.

Parliamo dell’Italia. Tra tre mesi esatti cadrà il pezzo di muro sui licenziamenti. Lei che sensazioni ha?

Il problema non è il termine, ma dotarsi di un sistema di ammortizzatori sociali decente. Le parti sociali hanno presentato dei progetti, non credo sia difficile sedersi intorno a un tavolo con il governo. Serve un riassetto degli ammortizzatori, oggi non esiste un problema licenziamenti. Perché il mercato del lavoro è di fatto sostenuto dalla Cassa integrazione. Un domani, finita la Cassa, occorrerà sostenere i medesimi posti con un sistema di welfare adeguato. Questa è la vera sfida. L’errore da non commettere è quello di pensare di andare avanti a colpi di Cig per ogni singolo settore, serve una riforma organica.

Domanda da un milione. La pandemia ci consentirà di ritrovare una politica industriale perduta ormai, da decenni?

Sì, se la politica industriale è lo stimolo a settori che offrono un miglioramento della qualità della vita e al soddisfacimento dei bisogni delle persone. Un esempio, incentivare la proliferazione di laboratori che consenta a tutti gli italiani di farsi un check-up annuo. Perché in questo modo si andrà a creare un indotto di fornitori di macchinari di cui quei laboratori avranno bisogno. E lo stesso vale per l’Alta Velocità o la connettività: è la domanda che fa la politica industriale, non qualche ministero che dice che un settore è strategico e gli dà i soldi.

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