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Così Emirati e Qatar si riscoprono mediatori (per effetto Biden)

I Paesi del Golfo cercano e trovano i propri spazi negli affari internazionali. Per differenziarsi dal petrolio, per spingere la strategia, per essere utili alle grandi potenze

I paesi del Golfo aumentano la loro complessità, escono dalla dimensione meramente economicistica delle petro-monarchie, effettuano investimenti dettati dalla strategia, partecipano agli affari internazionali. Uno slancio che sotto l’effetto Biden prende morfologia diplomatica, con alcuni di questi stati attivi su fronti critici.

Per esempio, fonti dai governi indiani e pakistani hanno fatto sapere in forma discreta alla Bloomberg che gli Emirati Arabi Uniti hanno avuto “un ruolo” nel negoziare un complesso cessate il fuoco tra Nuova Delhi e Islamabad. Il conflitto indio-pakistano è tutt’altro che un dossier facile, e la capacità di Abu Dhabi di inserirsi come negoziatore diplomatico segna una levatura internazionale tutt’altro che secondaria.

Allo stesso modo dicasi del Qatar, che recentemente si è portato avanti come mediatore tra Stati Uniti e Iran sul complicato dossier nucleare (e oltre). Contemporaneamente i qatarini continuano ad avere un ruolo centrale nel dossier afgano – Doha ospita una sede diplomatica dei Talebani, usata più volte per incontri, e i diplomatici qatarini in questi mesi sono stati piuttosto attivi percepedendo le necessità di Washington di trovare una sistemazione per il conflitto.

Sicuramente gli Stati Uniti sono il tema di fondo dietro a certi movimenti. Gli Usa di Joe Biden hanno promosso il “Diplomacy First” come mantra operativo nelle relazioni internazionali, e soprattutto gradirebbero che i paesi con cui hanno partnership non si mettessero in lite. Questo vale in Medio Oriente (vedere la riconciliazione Golfo/Qatar), nel Mediterraneo (Grecia e Cipro, così come l’Egitto, si parlano con la Turchia in un dialogo in cui anche l’Italia ha un ruolo), nella fascia asiatica questioni aperte come quella tra India e Pakistan sono hot-point pericolosi.

L’attivismo si lega anche a priorità di carattere tattico-strategico degli attori in campo. Qatar ed Emirati – che per ora hanno ancora rapporti freddi, ma come dice su queste colonne Leonardo Bellodi non possono che acquietarsi – sfruttano anche un momento non d’oro delle relazioni tra Arabia Saudita e Usa. E gli spazi evidenti lasciati da Washington sono quelli diplomatici. Spazi su cui però certi attori possono muovere i propri interessi nazionali.

Abu Dhabi ha recentemente intensificato i rapporti con l’India (a dicembre, per la prima volta nella storia, il capo delle Forze armate indiane ha visitato gli Emirati, per esempio), che è un vettore per la diversificazione a cui le petromonarchie puntano. Inoltre, l’accordo col Pakistan permette di aiutare a stabilizzare un’area che si affaccia sul Mar Arabico già piuttosto tesa (vedere le ultime vicende). E c’è di più: gli Emirati pensano tutto in ottica strategica, stretti tra Cina e Usa, dal compito di mediazione ottengono benefici per Pechino (che vuole armonia nel corridoio pakistano della Bri) e per Washington (che da Islamabad vuole cooperazione regionale, fronte afghano, e non apprezza le contese del Kashmir con l’alleato indiano membro del Quad).

Doha si muove in modo simile. Sa che fungere da vettore per la stabilizzazione è utile e ben visto agli occhi dell’amministrazione Biden. Sa che ha un vantaggio riguardo all’America sugli altri stati della regione, ospitando l’hub del CentCom nella base di al Udeid appena fuori la capitale, e vuole preservarlo. Media su dossier importanti per gli Stati Uniti, che vogliono sganciare impegno (in termini di forze e concentrazione) dai bubboni regionali come quello dell’Afghanistan e come il nucleare iraniano per spostare l’attenzione verso Oriente. In cambio può ricevere aperture, buoni uffici e soprattutto non sentirsi pesare il rapporto necessario con l’Iran (con cui condivide il più grande reservoir gasifero del mondo).

 

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