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Dante, la poesia e la pandemia. La riflessione di D’Ambrosio

Oggi più che mai, abbiamo bisogno di poesia. Abbiamo bisogno di leggerla, da soli e insieme, di comporla. Viviamo giorni in cui c’è sofferenza, ma anche confusione e abbattimento. E c’è anche chi avverte un peso psicologico della pandemia, con diversi risvolti. La poesia, insieme all’umorismo, è una delle migliori medicine. La riflessione di Rocco D’Ambrosio nel giorno del Dantedì

“Poi piovve dentro a l’alta fantasia” è il verso di Dante, tratto dal XVII canto del Purgatorio. Come spesso succede alla poesia, un verso può anche avere vita autonoma. Certo, va compreso nel suo contesto e seguendo il pensiero del poeta, di Dante, in questo caso, e di quanto racconta nel Canto in questione. Eppure è anche vero che la metafora poetica sorpassa i confini del testo e del contesto e giunge a noi con una potenza evocativa senza pari. E più il verso è pregnante e più risiede in noi come fonte. Più volte ci ritornano mente e cuore e vi ritrovano spunti per il pensare, cibo per l’anima, conforto interiore. “Leggetela cento volte una poesia – ha scritto Robert Frost – e non può mai perdere il sapore di un significato che una volta si sviluppò di sorpresa mentre procedeva… Comincia nel piacere, inclina all’impulso, assume una direzione con la prima riga messa giù, compie un percorso di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita: non necessariamente una chiarificazione grande, di quelle su cui si fonda un culto o una setta, ma una stasi momentanea contro la confusione”.

Viviamo giorni in cui c’è sofferenza, ma anche confusione e abbattimento. Ci sono gli ammalati e gli operatori sanitari sotto stress per ovvi motivi, ma c’è anche chi avverte un peso psicologico della pandemia, con diversi risvolti. In questa situazione, molto spesso, cuore e mente sono aridi, non piove e la fantasia è bassa, al lumicino. Dante ci permetterà di forzare le sue parole e dire: “Non piove dentro la fantasia, piccola e arida”. L’aridità è aggravata da un uso logoro delle parole. “Andrà tutto bene – dopo non sarà come prima – speriamo che finisca presto – siamo quasi alla fine del tunnel” sono espressioni che esprimono una legittima speranza ma, al tempo stesso, rischiano di essere abusate, prive di carica emotiva, poco consolanti. Per questo, oggi più che mai, abbiamo bisogno di poesia. Abbiamo bisogno di leggerla, da soli e insieme, di comporla. L’ha detto bene Maria Luisa Spaziani: “La poesia è un insieme di lingotti d’oro che garantisce la circolazione della carta moneta, cioè le parole che usiamo tutti i giorni. In questi ultimi anni, la carta moneta è diventata così invadente che il nostro cervello è assediato da un’infinità di fonemi insensati, ripetitivi o brutalmente pratici. Ma in noi c’è una forte esigenza di cose più ‘arieggiate’, più fantastiche e disinteressate. Ecco allora che la poesia torna ad essere interessante, con punte di boom”. E questo sembra essere uno di quei momenti.

Se le parole oggi rischiano di essere logore, se la comunicazione è in crisi, se il Covid toglie la parola a chi soffre o è schiacciato dalla fatica, se la parola è povera e debole perché non accompagnata dal contatto fisico, allora dobbiamo lasciare che la poesia sia una boccata d’aria per la mente e il cuore. “Do credito alla poesia – scrive Seamus Heaney – in virtù di un verso che ho scritto alquanto di recente incoraggiando me stesso (e chiunque altro in ascolto) a camminare sull’aria contro il tuo miglior giudizio (Then walk on air against your better judgement)”. Chi legge poesie o le scrive, chi le cita per trovare forza e illuminazione compie quel tentativo di camminare “contro il proprio miglior giudizio”, quello con i piedi per terra, che coglie la gravità del momento, la fatica a venir fuori dal tunnel, dalla malattia come dalla crisi economica e relazionale. In questi momenti di duro realismo diremmo forse: ma a che ci serve la poesia? Serve eccome!

La poesia, insieme all’umorismo, è una delle migliori medicine, “poesia come uno scavo, uno scavo alla ricerca di reperti che finiscono per essere piante” (S. Heaney). Volenti o nolenti abbiamo sepolto molto in questo anno di pandemia. La poesia è uno scavo indispensabile, per non perdere i reperti migliori. Dalla crisi ne usciamo insieme certamente perché “siamo tutti sulla stessa barca” (papa Francesco), ma ne usciamo anche vivificando la nostra comunicazione, ridando alle parole dignità e forza. Lorenzo Milani parlerebbe del bisogno di riconquistare “il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude”.

Non abbiamo bisogno di parole logore, vuote e stucchevoli, come diverse dichiarazioni di politici e servizi giornalistici sull’attualità. La poesia è tutt’altro: essa porta acqua salubre in questa aridità fisica, economica e relazionale. Ridona alla parola quella forza propulsiva di attraversare la crisi senza soccombere. Disseta e rinfranca chi cammina da parecchio. “Poi piovve dentro a l’alta fantasia”.

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