La promozione democratica all’estero da parte degli Stati Uniti ha avuto alterne fortune, da Truman a Trump. Con Biden la difesa della democrazia dall’autoritarismo di Russia, Cina e Iran assume una connotazione europea, ma avverrà a precise condizioni. L’analisi di Gabriele Natalizia, coordinatore di Geopolitica.info, autore di “Renderli simili o inoffensivi” (Carocci Editore)
È almeno un decennio che l’ordine internazionale a guida americana (o “liberale”) viene descritto come in crisi per via di una redistribuzione del potere favorevole ad alcune potenze revisioniste.
L’amministrazione Obama parlò dell’esistenza di potenze “in ascesa” nei suoi documenti strategici. Molto più crudamente quella Trump le definì potenze “revisioniste”. Nel primo documento strategico dell’amministrazione Biden si parla dell’esistenza “competitor strategici”. In tutti e tre i casi l’etichetta era pensata per descrivere principalmente la postura assunta dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla Federazione Russa.
Tra le possibili soluzioni che una potenza egemonica come gli Stati Uniti possono adottare per evitare che la “crisi” si trasformi in “superamento” dell’ordine da essa edificato e guidato figura la possibilità del retrenchment, ovvero il taglio di alcuni impegni contratti nella fase precedente in cui l’ordine era stabile. Di questa possibilità parlo in un recente volume – “Renderli simili o inoffensivi: L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia” (Carocci, 2021) – in cui ipotizzo che tra gli impegni almeno parzialmente oggetto della scure dei tagli ci sia quello della promozione della democrazia.
Ne è emerso che il dilemma che avvolge questa possibilità non sia qualcosa di recente, ma che gli Stati Uniti si sono confrontati ricorrentemente con l’atteggiamento da tenere nei confronti dei regimi interni degli altri Stati, che può essere sintetizzato come segue: per la sicurezza americana è più opportuno renderli “simili”, ovvero favorirne il percorso di avvicinamento alla democrazia o il suo consolidamento, o renderli “inoffensivi”, ovvero sostenere al loro interno la presenza di un regime che non ne permetta uno slittamento nel fronte “revisionista”?
Il dilemma della democrazia ha così attraversato la Guerra fredda, determinando risposte diverse a seconda del grado di stabilità/instabilità dell’ordine internazionale. Solo per citare i casi più evidenti, si pensi a come negli anni di Harry Truman o Ronald Reagan la risposta degli Stati Uniti sia tendenzialmente corrisposta con la prima scelta, mentre in quelli di Lyndon Johnson e Richard Nixon abbia tendenzialmente virato verso la seconda.
A questo dilemma non sono sfuggite le Amministrazioni del post-Guerra fredda. Di fronte allo strapotere di cui gli Stati Uniti hanno goduto nel ventennio successivo alla fine della Guerra fredda, le risposte di Bill Clinton e George Bush sono state simili. Entrambi, infatti, hanno optato per un impegno su vasta scala – facendo ricorso a tutti i mezzi a disposizione – nella promozione della democrazia. Ben nota la formula del democratic enlargement che divenne il perno dell’approccio strategico americano nel post-Guerra fredda, come quelle dell’exporting democracy e della freedom agenda.
Già negli ultimi anni della presidenza Bush, tuttavia, si cominciò a parlare dell’ordine liberale come di un ordine internazionale in crisi. Sul piano militare, nonostante un gap incommensurabile di spesa e qualità di armamenti continuasse – e continua tuttora – a intercorrere tra Washington e il resto del mondo, i fallimenti delle missioni in Afghanistan e Iraq da un lato fece percepire gli Stati Uniti come sfidabili (vulnus al prestigio), dall’altro ne favorirono la rappresentazione di superpotenza “capricciosa” – come aveva anticipato Kenneth Waltz in un articolo del 2000 – se non aggressiva (vulnus alla legittimità).
Sul versante economico-finanziario, invece, la crisi del 2007-2008 mise in luce le imperfezioni del sistema neoliberale (vulnus al potere), mentre le sue ricadute mondiali nel lustro successivo fecero dubitare della perdurante volontà americana a guidare il mondo (vulnus alla legittimità). A completare il quadro fu l’assunzione di una postura apertamente revisionista della Federazione Russa, soprattutto dopo il discorso di Vladimir Putin del 2007 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, e della Repubblica Popolare Cinese, con maggior enfasi dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping.
Questo mutamento di interazione ebbe riflessi immediati sull’approccio strategico di Washington e, come inevitabile conseguenza, sulle sue politiche di promozione della democrazia. Se nel suo discorso di insediamento Barack Obama fu il primo presidente dai tempi di Reagan a non menzionare l’impegno dell’America nella promozione della democrazia, nell’audizione per la sua conferma al ruolo di segretario di Stato Hillary Clinton sintetizzò la propria visione della politica estera in tre “D” – diplomacy, defence, development – escludendone una quarta – ovvero democracy.
Al mutamento retorico corrispose anche quello nell’approccio strategico, con particolare riguardo alle politiche realizzate in Medio Oriente e Nord Africa. Di fronte alle proteste di massa in Iran (2009-2010) contro le frodi elettorali che avevano portato alla conferma di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza, Washington non fornì un sostegno concreto al cosiddetto “Movimento verde”. Al cospetto delle Primavere arabe (2011), invece, la Casa Bianca scaricò Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto solo quando fu chiaro – soprattutto nel secondo caso – che il loro potere era agli sgoccioli. Al governo del Bahrein, invece, chiese di fermare la repressione in corso contro le sollevazioni popolari, ma non diede nessun endorsement ai manifestati poiché ritenuti vicini a Teheran.
La scelta, in parziale controtendenza, di sostenere la causa dei ribelli contro Bashir al-Assad in Siria, tuttavia, fu utilizzata anche come strumento di pressione nei confronti dell’Iran – “Stato-padrino” del regime di Damasco – nella partita per l’accordo sul nucleare (2015). Nell’ambito del più vasto tentativo di stabilire partnership strategiche con potenze rivali, l’Amministrazione Obama non mosse rimostranze sul ritorno al potere in Ucraina (2010) di quel Viktor Yanukovych contro cui si era sollevata la Rivoluzione arancione. Solo dopo l’esaurimento della politica del Russian reset, infatti, Washington ritornò su una posizione dura nei confronti di Mosca, sostenendo sin dal principio le proteste dell’Euromaidan (2013-2014).
La presidenza di Donald Trump è stata marcata da una sostanziale continuità con il suo predecessore in tema di promozione democratica, portando quale principale elemento di novità un aperto disincanto nei confronti dell’universalismo dei principi e dei modelli politici americani. L’ascesa sempre più prepotente delle potenze revisioniste, inoltre, ha convinto la Casa Bianca dell’ineffettività delle politiche volte a relativizzare le ragioni di inimicizia con i principali sfidanti degli Stati Uniti. La democrazia ha così anche ufficialmente cambiato posizione nell’equazione strategica americana, passando da obiettivo a strumento per tenere sotto pressione gli avversari.
Appaiono esemplari in tal senso i casi dei rapporti con la Cina e la Corea del Nord. Già nel dicembre 2016, da presidente-eletto, Trump aveva messo in discussione uno dei pilastri della relazione sino-americana – la One China Policy – stabilendo un rapporto diretto con Tsai Ing-wen, nella prima telefonata di un presidente americano a uno taiwanese dal 1979. Sebbene abbia confermato in numerose occasioni il suo impegno per la sicurezza dell’isola e contrapposto il suo modello politico, considerato un faro di libertà e democrazia per tutti i Cinesi, al totalitarismo della Cina continentale, il presidente americano non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di una visita sull’isola per gli effetti imprevedibili che avrebbe potuto innescare.
Stesso discorso nel caso di Hong Kong, dove un disegno di legge sull’estradizione verso alcuni paesi – tra cui la Cina – ha fatto sollevare un imponente movimento di protesta (2019-2020) che è stato duramente represso dalle autorità locali. Sebbene la Casa Bianca abbia ripetutamente evocato il One China, Two Systems, si è astenuta dall’utilizzo di retoriche e strumenti propri delle strategie precedenti di promozione della democrazia, quali ad esempio il finanziamento esplicito a gruppi e movimenti o il coordinamento di uno sforzo internazionale di condanna.
Ancor più spregiudicato è stato il ricorso al tema della democrazia nei confronti della Corea del Nord. Le critiche sulla natura dispotica del regime di Pyongyang, infatti, sono sembrate funzionali a mettere nell’angolo il leader nordcoreano Kim Jong-un per indurlo a modificare le sue politiche sul nucleare. Nel corso di una visita a Seul nel novembre 2017, Trump ha denunciato l’orrore della vita nel paese asiatico e la crudeltà del suo dittatore. Già nell’aprile 2018, tuttavia, il tema dei diritti umani in Corea del Nord è stato sostanzialmente espunto dai discorsi del presidente in vista dei preparativi per il summit di Singapore, così come in occasione dell’incontro tra Trump e Kim Jong-un nella zona demilitarizzata coreana del 30 giugno 2019.
Questo non significa che negli anni di Obama e Trump, la democrazia sia scomparsa dal discorso politico. Al contrario, ha continuato a occupare un posto significativo nella narrazione americana del mondo, come dimostrato dal suo ricorso nei confronti della Russia negli anni di Obama e di quello nei confronti della Cina negli anni di Trump.
Allo stesso modo, questo non significa che politiche di promozione democratica non siano state realizzate, come dimostrato dall’impegno americano in Honduras (2009), Haiti (2010) e Ucraina (2014) nel primo caso o da quello nei confronti della Cambogia (2017), Hong Kong (2019) e Venezuela (2020). Tuttavia, la necessità vitale di salvaguardare l’ordine a guida americana ha indotto gli inquilini della Casa Bianca a ridurre il numero degli impegni contratti negli anni Novanta e nel primo decennio del XXI secolo, a concentrare le risorse nel mantenimento del primato americano sulle potenze revisioniste e, infine, ad accettare – seppur malvolentieri – le deviazioni di alcuni alleati e partner dal modello democratico.
La democrazia, invece, sembra occupare un posto centrale nei primi discorsi e documenti di Biden. Tuttavia, è prevalentemente presentata come un “bene” da salvaguardare anzitutto all’interno delle “mura domestiche” degli Stati Uniti e dei Paesi europei. La sua strategia, infatti, sembra pensare alla democrazia come a un elemento di coesione per quei Paesi interessati «a combattere le minacce contro le società libere» e a preservare – usando un termine da Guerra fredda – quelle “condizioni di forza” – nei settori militare, economico, spaziale e nel controllo degli “spazi comuni” – che ancora le favoriscono rispetto ai loro avversari.
L’idea più volte espressa per cui l’America deve agire come “un esempio” per gli altri, inoltre, fa pensare che l’amministrazione in carica non pensi a realizzare politiche di promozione democratica su vasta scala. Ancora è troppo presto per sviluppare una riflessione sulle politiche dell’amministrazione Biden, ma il sostanziale perdurare delle condizioni internazionali alla base delle scelte dei suoi predecessori inducono a pensare che questa non segnerà una netta discontinuità con il passato.