Alla fine dei conti Nicola Zingaretti non è stato certamente tra i protagonisti dell’operazione Draghi, mentre rischia di creare, con la sua crisi di nervi, un problema in più nel difficile cammino del governo
Per il Pd è veramente un guaio perdere un leader come Nicola Zingaretti. La sue intuizioni, la sua guida davano l’indicazione di quale fosse, in ogni momento, la strada giusta da seguire. Per essere sicuri di non sbagliare era sufficiente fare esattamente il contrario. A pensarci bene la sua leadership era una garanzia, alla stregua di un meteo invertito. Per sapersi regolare, basta sapere che pioverà se indica bel tempo; e viceversa.
Zinga collezionava una sconfitta dietro l’altra, ma i dem vincevano tutte le battaglie. Del resto, gli antichi romani che la sapevano lunga sulla guerra avevano un motto: ‘’virtute duce, comite fortuna’’. Certo le virtù di Zingaretti non erano un granché ma la fortuna era tanta. Nonostante non ne azzeccasse una, le cose andavano bene.
Così è il primo segretario che si dimette perché il suo partito ha successo. Un altro al suo posto – gettando la spugna quando sta vincendo ai punti – non avrebbe accusato il suo partito di pensare solo alle poltrone, commettendo un’ulteriore gaffe nei confronti delle donne dem che erano le sole a lamentarsi. Avrebbe avuto buoni motivi per rimproverare di ingratitudine il gruppo dirigente e i capi e capetti delle correnti. Ci saremmo aspettati di vederlo “dalla cintola in su” dal podio dell’Assemblea nazionale mentre fissa negli occhi gli astanti lasciandoli basiti con le parole del giusto tradito.
“Vi ricordate in quali condizioni era il partito quando sono diventato segretario? Renzi con la sua riforma costituzionale lo aveva portato ai livelli più bassi del consenso elettorale; eravamo stati cacciati all’opposizione, mentre il governo giallo-verde ne combinava di tutti i colori, ma sembrava invincibile e determinato a rompere con la Ue, ad uscire dall’euro, ad affondare i barconi dei migranti nonché a trasformare ogni cittadino in un reo non confesso”.
Poi dopo una breve pausa ad effetto ecco il colpo di grazia: “Guardatevi intorno oggi. Siamo tornati al governo spaccando la maggioranza che aveva vinto le elezioni, abbiamo sdoganato i ‘grillini’, fino a fare parte da poche settimane di un governo presieduto da una personalità che tutto il mondo ci invidia e che è riuscito a condurre persino Matteo Salvini all’interno di una coalizione di cui Draghi ha tracciato un perimetro invalicabile.
Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione”.
Infine, rivolto a Bonaccini seduto in platea: “Caro Stefano, tu hai vinto in Emilia Romagna quando io ero segretario, ricordatelo. Ho portato il partito a Bologna impegnandolo in un dibattito di alto livello, mentre era in corso la tua campagna elettorale”. Tutto qui. A pensarci bene, però, è meglio che abbia evitato una presa di posizione siffatta, perché i suoi avversari lo avrebbero intercettato più volte in contropiede, ricordandogli i suoi jamais e le successive abiure.
Dal canto suo Bonaccini avrebbe potuto ricordare che l’intervento di Zingaretti a Bologna (esibendo a freddo lo ius soli, di cui un secondo dopo non si era più parlato per mesi) aveva rischiato di metterlo in difficoltà. In sostanza l’ex segretario non sarebbe stato in condizioni di usare il tono della critica, perché gli sarebbe tornata subito indietro impietosamente. Tuttavia, anche se nessuno lo ha notato, l’errore più grave del “vice commissario” Montalbano/Zingaretti sta proprio nel modo con cui ha scelto di uscire di scena.
Rispondendo ad una mia lettera cortesemente ospitata dal suo giornale, Claudio Cerasa ha scritto: “Ma quando si giudica una leadership non basta concentrarsi sulla linea del leader. Occorre anche giudicare i risultati. E la domanda che meriterebbe di essere fatta anche da chi non ama Zingaretti è: quanto è stato importante il Pd per portare l’Italia dalla situazione in cui si trovava tre anni fa a quella in cui si trova oggi?”.
La risposta è una: non poco. La linea è importante, ma i risultati a volte lo sono ancora di più. Certo, in politica contano soprattutto i risultati, sempre che si sia legittimati a rivendicarli. I fatti hanno la testa dura: Zingaretti si è dimesso proprio quando il suo partito era stato “non poco” importante nel determinare la svolta.
Ed è un fatto che, mentre il presidente Mattarella tesseva la tela per portare Draghi al governo (senza nominarlo senatore a vita per non rivelare le sue intenzioni), il Pd di Zingaretti continuava fino all’ultimo a giurare fedeltà a Conte mettendosi persino alla caccia dei “responsabili” per poter confermare, folgorante in soglio per la terza volta, il Giuseppe “federatore”, in diretta e dura polemica verso la crisi aperta dal Maramaldo toscano.
Passi, allora, che Nicola Zingaretti si sia fatto imporre nel 2019 l’avvocato del popolo con indosso una diversa casacca per diventare poi il suo principale sostenitore, fino ad un minuto prima del colpo di scena del Quirinale. Prendiamo, pure, per buono il risultato di una linea politica strabica. Ma che Zinga si sia trovato, senza rendersene conto se non a cose fatte, al governo con Mario Draghi – vero e proprio convitato di pietra – è stato un incidente politico clamoroso.
Confermato da successive dimissioni pretestuose, perché un leader politico non può offendersi a causa di critiche, forse tardive e ingiuste, ma meritate. Alla fine dei conti Nicola Zingaretti non è stato certamente tra i protagonisti dell’operazione Draghi, mentre rischia di creare, con la sua crisi di nervi, un problema in più nel difficile cammino del governo.