L’EPF è uno strumento rischioso o un’opportunità per l’Ue? Giuseppe Famà (CrisisGroup) evidenzia alcuni problemi, mentre Bruxelles difende la scelta e la Nato ha qualche dubbio
Dopo l’accordo politico raggiunto a dicembre dello scorso anno, il Consiglio passa lo “European Peace Facility” (EPF), il nuovo strumento globale fuori bilancio che finanzierà l’azione esterna con implicazioni nel settore militare o della difesa, nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, “al fine di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità internazionale”, come spiega l’Ue.
In discussione dal 2018, allineato alla strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea del 2016, l’EPF disporrà di una dotazione pari a 5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, e sarà finanziato da contributi annuali degli Stati membri.
Bruxelles, per la prima volta, avrà possibilità di integrare le attività delle sue missioni e operazioni Psdc (Politiche di sicurezza e difesa comune) nei paesi ospitanti con misure di assistenza che possono includere la fornitura di materiali, infrastrutture o assistenza nel settore militare e della difesa, su richiesta di Paesi terzi, organizzazioni regionali o internazionali.
Lo strumento europeo per la pace sostituirà per esempio l’attuale Fondo per la pace in Africa, che è il principale canale utilizzato dall’Ue per contribuire al finanziamento delle operazioni dirette dall’Unione africana o da organizzazioni regionali africane, e, d’ora in poi, consentirà all’Ue di contribuire al finanziamento delle operazioni di sostegno alla pace condotte da partner in tutto il mondo.
L’EPF presenta però un’innovazione rischiosa, secondo Giuseppe Famà, analista che per l’International Crisis Group dirige i lavori con la Ue, perché consente per la prima volta a Bruxelles di fornire addestramento al combattimento e attrezzature militari — comprese quelle letali.
“Il pericolo principale — spiega Famà a Formiche.net — sta nel fatto che, nonostante gli sforzi dell’Ue per mitigarne i rischi connessi, gli equipaggiamenti militari possano essere utilizzati impropriamente provocando ulteriori violenze, poiché i governi degli stati fragili, dove si pensa l’uso di questo strumento, hanno spesso una governance e sistemi di gestione scadenti per gestire adeguatamente l’hardware militare”.
È il rischio costantemente valutato quando si tratta di fornire assistenza militare a Paesi fragili, in crisi o addirittura in conflitto, perché le armi potrebbero prendere strade deviate: d’altronde è già per esempio successo di vedere gruppi jihadisti con in mano armi occidentali fornite invece ad altre organizzazioni o governi per combatterli (Siria e Iraq sotto il Califfato sono un esempio).
“L’Ue dovrebbe astenersi dal fornire attrezzature letali quando tale rischio è presente — continua Famà — e invece dare la priorità ad altre misure di assistenza all’interno dell’EPF”. Per esempio? “Più in generale, l’Ue dovrebbe invertire l’ordine delle sue risposte alle crisi internazionali, modellando i suoi interventi all’interno di strategie politiche le cui priorità sono le riforme della governance, la riconciliazione delle comunità e il ripristino del tessuto sociale nei paesi a rischio”.
L’articolo 41(2) del Trattato dell’Unione europea prevede che nessun budget europeo possa essere utilizzato per operazioni aventi implicazioni militari o di difesa, per tale ragione l’EPF viene finanziato in formula “off-budget”. Tra i sostenitori, c’è chi vede nei progetti di train & equipe un metodo valido di aiuto a paesi in difficoltà statuali e di gestione della sicurezza, nonché un modo per andare oltre al meccanismo “Athena” di pianificazione dei singoli interventi allargando a una visione più ampia.
Alcune ong hanno evidenziato il rischio che le armi e gli equipaggiamenti forniti da Bruxelles finiscano per essere usati da governi autoritari per reprimere il dissenso interno, invece il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha sottolineato lo scorso mese che l’EPF è necessario se “vogliamo agire in modo più strategico, per difendere i nostri interessi e promuovere i nostri valori”. Michel ha ricordato che lo strumento sarà usato dall’Ue con criteri di massima attenzione.
Un altro elemento sensibile riguarda la Nato e ha una dimensione più strategica, perché un’altra delle preoccupazioni è che la spinta dell’Ue possa minare l’alleanza sostenuta dagli Stati Uniti in un momento in cui il nuovo presidente Joe Biden sta cercando di rafforzarla. “È assolutamente ovvio che noi dobbiamo agire insieme”, ha detto il segretario dell’alleanza, Jens Stoltenberg. L’ottica è anche quella complessa dell’autonomia strategica e di come delinearla e integrarla con le realtà esistenti.