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A cosa (non) serve fermare l’export militare. Scrive Nones

Lo stop all’export verso Arabia Saudita ed Emirati? Tutti i politici italiani coinvolti sembrano non sapere che un embargo deciso a livello nazionale non può avere alcun effetto, nemmeno se lo fa una grande potenza. Figurarsi se si tratta di una media potenza come l’Italia. L’impatto, piuttosto, è sulla nostra credibilità. L’analisi di Michele Nones

Nel novembre 1935, l’Italia fascista fu il primo Paese al mondo a essere colpito da pesanti sanzioni economiche, decise dalla Società delle nazioni a causa dell’attacco all’Etiopia. Sette mesi dopo, nel luglio 1936, furono revocate perché a maggio l’Italia aveva conquistato e annesso l’Etiopia, dimostrando l’inutilità delle sanzioni, fra cui vi era anche il blocco delle importazioni italiane di “materiali utili per la causa bellica”.

Anche sul piano del consenso interno la decisione internazionale fu un completo fallimento, perché il regime riuscì, grazie al controllo totale dell’informazione (radio e giornali), a indurre un moto di orgoglio nazionale contro le “inique sanzioni”. Nello stesso novembre 1935, fu infatti lanciata la campagna “Oro alla Patria”, con la quale furono mobilitati mariti e mogli chiamati a donare le fedi auree in cambio di anelli metallici. Sul piano economico, industriale commerciale fu, per di più, l’inizio della “autarchia” per ridurre la dipendenza italiana dalle importazioni estere, col risultato di isolare maggiormente l’Italia sullo scenario internazionale.

Questo pessimo primato storico italiano dovrebbe essere tenuto presente da quanti oggi si illudono di poter ottenere un risultato diverso applicando degli embarghi ad altri Paesi coinvolti in operazioni militari. Di qui si dovrebbe partire per comprendere quanto inutile e dannosa per gli interessi nazionali sia la decisione italiana di vietare le esportazioni di bombe d’aereo e missili verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, a causa dei bombardamenti effettuati durante le operazioni nello Yemen.

Nelle discussioni parlamentari che hanno preceduto la decisione del governo, si è fatto riferimento alle vittime civili, ma questo non è certamente un problema esclusivo o specifico del conflitto in corso. Negli ultimi trent’anni il coinvolgimento della popolazione civile nei conflitti “ibridi” è diventato più frequente e massiccio perché vi operano forze irregolari che si mascherano all’interno di città e villaggi, al duplice scopo di non farsi individuare e di esercitare uno stretto controllo sulla popolazione. L’intervento delle forze regolari al fine di contrastarle comporta, di conseguenza, inevitabili vittime civili.

Meno preciso e sofisticato è l’armamento utilizzato e più è difficile limitarne il numero. Meno organizzate e strutturate sono le forze irregolari da sconfiggere ì, più è difficile individuarle. Meno sviluppato è il Paese coinvolto, più limitati sono i veri obiettivi militari. Questo non significa che non debbano e possano essere prese tutte le misure necessarie per limitare le vittime civili, ma ogni Paese che decide un intervento armato fuori dai suoi confini deve essere consapevole che inevitabilmente ce ne saranno. Questo è avvenuto nella ex-Jugoslavia come in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, Mali, e così via.

Tutti i politici italiani coinvolti sembrano non sapere che un embargo deciso a livello nazionale non può avere alcun effetto, nemmeno se lo fa una grande potenza. Figurarsi se, invece, si tratta di una media potenza come l’Italia. Trattandosi solo di una forma di pressione politica, quello che conta è il peso e l’autorevolezza dell’organizzazione che lo decide. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è costantemente bloccato dal veto esercitato dai suoi membri permanenti. Gli Stati Uniti piegano troppo spesso gli embarghi ai loro obiettivi. L’Unione europea potrebbe esercitare questa pressione con un’adeguata credibilità, ma dovrebbe prima riuscire a definire una sua politica estera che in alcune situazioni utilizzi anche gli embarghi e, in particolare, quelli militari. Ma la strada è ancora molto lunga e va percorsa tappa dopo tappa, perché non ci sono scorciatoie. Limitarsi a criticarne l’assenza diventa solo un alibi per giustificare la propria inerzia. Ma anche assumere inutili decisioni nazionali diventa un alibi per non ammettere la propria impotenza.

In questa vicenda, l’aspetto più grave è nella decisione assunta dal ministro degli Affari esteri di revocare le autorizzazioni ancora in corso, senza attenderne la scadenza. La nostra normativa prevede che questo possa avvenire solo se si verificano precise circostanze giuridicamente vincolanti. Deciderlo, invece, sulla base di una valutazione politica crea un forte danno alla nostra credibilità di fornitore affidabile di equipaggiamenti militari. Per ogni Paese la difesa e la sicurezza rappresentano un elemento fondamentale per la propria sopravvivenza, soprattutto quando è inserito in aree a forte instabilità o dove sono in corso scontri armati. Se un Paese deve affidarsi ad altri perché da solo non ha le capacità di difendersi, cercherà un partner di cui potersi fidare. Non rispettare gli impegni presi compromette la sua affidabilità e questo si ripercuote inesorabilmente in ogni settore e per un tempo imprevedibile, col rischio di contagiare anche altri Paesi.



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