Il 3 aprile del 1991 ci lasciava Graham Greene (Berkhamsted-Londra, 2 ottobre 1904), giornalista, agente segreto, scrittore e critico letterario, sceneggiatore e conferenziere. Noto agli amanti della spy story con romanzi che fecero scuola, “Il potere e la gloria”, “Fine di una storia”, “Il nocciolo della questione”. La sua poetica è attraversata da un forte senso etico di giustizia e dal tema cattolico del peccato. Divenne popolare con la sceneggiatura, del subito celebre, “Il terzo uomo”, (1949), di Carol Reed, che schierava un superbo cast: Joseph Cotten, Trevor Howard, Orson Welles e Alida Valli
Spesso si diventa lettori di libri se il cinema ci mette lo zampino. Cosi accadde a livello planetario quando sugli schermi arrivò una storia di spionaggio, di vita quotidiana, di infelici amori, nella affascinante Vienna del secondo dopoguerra divisa e controllata dalle truppe di quattro potenze vincitrici: sovietiche, inglesi, francesi e americane. Il film, The Third Man (1949, Carol Reed) fu subito un enorme successo, grazie anche a una colonna sonora che omaggiava il sirtaki. Il cast era superbo: Joseph Cotten, Trevor Howard, Orson Welles e Alida Valli. Ma quello che colpì solo gli appassionati di letteratura e di cinema è che nei cartelli dei titoli di testa sotto la parola “screen play” compariva il nome di uno scrittore dal palato fine: Graham Greene.
DA LAUREATO A GIORNALISTA CONVERTITO AL CATTOLICESIMO
Dopo aver frequentato negli anni universitari i circoli intellettuali e marxisti di Oxford (né la filosofia di Karl Marx e Friedrich Engels, né la sua messa in pratica ad opera di Lenin lo convinsero) si laurea in Storia nel 1925. Vuole essere nel centro della cultura reale e così si presenta come free-lance al Nottingham Journal. Non soddisfatto dei pezzi che gli chiedono, poco dopo riesce a farsi assumere come redattore interno al The Times. Nel biennio 1925-26 entra in corrispondenza con Vivien Dayrell-Browning, educata e puntuale docente che gli aveva scritto correggendo un suo pezzo dal punto di vista dottrinale e teologico. Dalla stima reciproca si passa all’amore, i due si sposano. Nel frattempo Greene attraversa una crisi esistenziale, che si porta dentro dall’adolescenza (pare soffrisse di bipolarismo; andò anche in analisi all’età di diciotto anni), che risolve rileggendo la propria vita da un punto di vista cattolico, paolino, come gli suggeriva Vivien. Nel 1926, lascia il protestantesimo, e riceve il battesimo nella chiesa cattolica. Curiosamente, in Germania, qualche anno prima (1922) lo riceveva anche l’ebrea filosofa Edith Stein.
IL SUCCESSO COME SCRITTORE
Greene pubblica diversi racconti ma il romanzo che lo fa conoscere agli amanti del thriller, molto apprezzato da Dacia Maraini, è il corposo Stamboul Train (Un treno per Instabul, 1932). “Una luce morbida invadeva gli scompartimenti. Le creature umane galleggiavano come pesci in un’acqua dorata, liberi dal peso della gravità, volando senza ali in un acquario di vetro. Visi abbrutiti e corpi malfatti venivano tramutati se non in bellezza perlomeno in forme grottesche forgiate da un effetto beffardo”. Greene, con una scrittura già cinematografica, sviluppa l’intuizione di Franz Kafka, quella di raccontare una vicenda che si svolge in un luogo chiuso (La metamorfosi, 1912), con personaggi fatti incontrare dal caso, con unioni che si spezzano e nascita di nuove alleanze. Una vita vissuta forzatamente in treno, mentre fuori scorre, di là dai vetri, un altro film, ossia la vita vera, che ognuno sta fuggendo ma della quale ora sente la mancanza.
IL SUCCESSO, LE CRITICHE DEL MONDO CATTOLICO E PAOLO VI
Il primo successo arriva con il romanzo The Power and the Glory (Il potere e la gloria, 1939). Romanzo ispirato dalla rivoluzione militare con la conseguente secolarizzazione messicana degli anni Venti, che Greene si recò a studiare nel 1938, inviato dalla casa editrice Longman. Nel romanzo, uno dei personaggi principali, è un prete cattolico alcoolista; un altro personaggio secondario, anch’esso un prete, sotto il ricatto del governo fortemente anticlericale, ha lasciato convintamente la tonaca e preso moglie, come imponeva il regime militare. Il potere e la gloria per queste figure di sacerdoti privi di carattere e di fede, degenerazioni del modello di Don Abbondio, non venne accettato da mondo cattolico, tanto che nel 1953 la Congregazione della dottrina della fede inscriveva il testo tra i libri da evitare. Dopo qualche mese Greene interruppe la frequentazione dei sacramenti.
THE HEART OF THE MATTER ( IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE, 1948)
Ambientato nell’Africa coloniale durante la Seconda Guerra Mondiale The Heart of the Matter (Il nocciolo della
questione, 1948) pone problemi di etica e di coscienza in rapporto alla fede cristiana. Il maggior Scobie, responsabile in una città coloniale “della corona” (si allude alla Sierra Leone), ha una moglie, Louise, con la quale i rapporti intimi si sono raffreddati. Ella è una credente convinta, depressa dalla vita in quell’area povera e troppo calda, desiderosa di andare in Sud Africa, dedita alla lettura della poesia. Scobie, un cattolico convertito (nel modello vi sono gli elementi biografici di Greene), con continui problemi quotidiani da risolvere dovuti al suo ruolo di militare (traffico di diamanti illegali, spionaggio a favore dei tedeschi, ecc.), è alla ricerca di una propria identità. Un giorno, tra le diverse ondate di profughi dovute alla guerra, arriva una giovane vedova, Helen. Tra Scobie e la donna nasce una irresistibile attrazione che si trasforma in relazione. L’uomo, pur sapendo di commettere sacrilegio non riesce a non andare all’eucarestia, con accanto la moglie Louise, senza essersi confessato. Più avanti, nel suo percorso non chiaro, anche nel lavoro, accettando compromessi, più realizza che sta uscendo fuori dalla grazia di Dio e, alla fine, opterà per il suicidio. Louise chiede al confessore se suo marito si sia salvato oppure no, il sacerdote risponde che noi uomini non possiamo misurare la misericordia di Dio.
APPREZZAMENTI E CRITICHE
Molto apprezzato dal pubblico The Heart of the Matter ricevette critiche contrastanti. Anthony Burgess (autore di Arancia meccanica; sceneggiatore del Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, tanto per citare alcune sue opere popolari) riconobbe a Graham Greene la capacità di raccontare l’Africa coloniale con maestria (peccato che Burgess non abbia letto Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, sempre del 1948); mentre George Orwell, che come critico non conosceva la diplomazia, definisce la ricostruzione etnografica “banale”, considerato che la rappresentazione dell’Africa coloniale è risolta nel semplice raccontare una vicenda ambientata in una “piccola comunità di bianchi”. Sta di fatto che The Heart of the Matter, amato da generazioni di lettori con “il mal d’Africa”, visto quasi subito sul grande schermo, nel 1953, in un film per la regia di George More O’Ferrall (con Trevor Howard e Maria Schell), ricopre il 40esimo posto nella classifica dei migliori 100 romanzi della letteratura inglese del Novecento.
SCENEGGIATORE DI CINEMA: THE THIRD MAN (1949)
Era da poco stato pubblicato The Heart of the Matter che Graham Greene fu invitato a scrivere la sceneggiatura del film The Third Man (1949), regia di Carol Reed. Sui titoli di testa compariva per la prima volta il cartello “screen play by Graham Greene”: a proiezione finita gli amanti del giallo e del thriller non avrebbero dimenticato quel nome. Tra l’altro Il terzo uomo è il primo caso di “trasposizione inversa” nella storia del cinema, ossia da sceneggiatura-film realizzato a testo letterario. Infatti Greene, dopo aver consegnato la sceneggiatura, scrisse in pochi giorni il breve romanzo The Third Man. L’opera, mettendo in campo la doppiezza dell’essere umano, riproponeva il tema della menzogna e della disonestà in grado di uccidere i valori etici e romantici della nostra gioventù che crediamo incontaminabili. Nel film di Carol Reed (Gran Prix a Cannes 1950) eccoci in una Vienna espressionista, ritratta con inquadrature oblique, segnata da ombre deformate, uniche anime di vie e piazze deserte, città di occupazione governata delle potenze vincitrici. Questa città fantasma, ambigua e impaurita, accoglie lo scrittorello americano Holly Martins (Joseph Cotten) venuto in Europa perché crede in un sogno, quello dell’amicizia giovanile con il suo amico Harry Lime (Orson Welles), che non vede dai tempi dell’università. Questi si rivelerà essere diventato un Giuda pronto a vendere veleno chimico per arricchirsi.
OUR MAN IN HAVANA (1958)
Dal romanzo Our man in Havana (1958), ne fu subito tratto un omonimo film, per la regia ancora di Carol Reed.
La versione filmica mantiene l’ironia del testo letterario cui si aggiunge un sottile humour che scaturisce da eccellenti prove di attori quali, Noël Coward (il noto drammaturgo e attore: la sua camminata da marionetta veloce per le strade e i vicoli di L’Avana, rincorso dal solito gruppetto di cantanti ambulanti con chitarrista, è irresistibile) e soprattutto Alec Guinness. Questi, nella parte del protagonista, con l’innocente tono del venditore di aspirapolveri, sequenza dopo sequenza, si trasforma in un improbabile fantasioso agente segreto, disegnatore di gigantesche basi tecnologiche di guerra, che non sono altro che varianti deformate di aspirapolveri, presi per minacciosi armamenti da parte dei suoi superiori. La regia di Carol Reed lasciava le oscure composizioni cubo-costruttiviste di The Third Man per approdare a una costruzione visiva più ariosa e ironica, con panoramiche e carrelli pieni di luce, sul modello hitchcockiano di The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955).
IL CINEMA AMA LA POETICA DI GREENE
Nei decenni successivi altre pellicole vennero tratte dai testi di Graham Greene. Ricordiamo almeno The Honorary Consul (Il console onorario, 1983) di John Mackenzie, versione del romanzo del 1973, con una buona ricostruzione della criminale e cupa Argentina dei generali, ma poco coinvolgente nonostante l’appassionato Richard Gere nella parte del giovane medico, intento a trovare un riscatto etico come suggerito dalla poetica greeniana. The End of Affair (Fine di una storia,1999), di Neil Jordan (il regista di La moglie del soldato e della serie I Borgia), esibisce un’accattivante costruzione a flashback (debitrice di Tradimenti,1983, David Jones, tratto da Harold Pinter) e una accurata ricostruzione psicologica della Londra periodo 1939-1940, sotto i bombardamenti dei razzi V1. Jordan, nel raccontare la travolgente storia d’amore e di tradimento, destinata a chiudersi, evita il melodramma perseguendo un rigore quasi bergmaniano. Infine, vanno menzionate le due versioni filmiche di The Quiet American (Un americano tranquillo, romanzo del 1955, sulla guerra in Indocina). La prima trasposizione di Joseph Mankiewicz (1958), per quanto delicata negli intrecci, tra politica e amori, suscitò il vivo disappunto di Greene, poiché, secondo lo scrittore, era scomparsa la sua lettura antiamericana (ma egli dimenticava che Hollywood subiva la “caccia alle streghe”). Appare più fedele al testo la dignitosa trasposizione di Phillip Noyce (The Quiet American, 2002), con una riuscita ricostruzione documentaristica della carneficina di Place Garnier nel 1954, a Saigon.
AMANTE E SPIA
Sulla vita privata di Greene molte sono le pagine. Da quelle autobiografiche di Ways of Escape, (1980) o A World of My Own (1992), sino a quelle di accreditati biografi come Michael Shelden, Graham Greene. The Man Within (1990), e Norman Sherry, La vita di Graham Greene (2004), cui si aggiunge, in questi giorni, il voluminoso Richard Greene (omonimo), Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene (Sellerio, 2021). Eppure, a tutt’oggi, non si sa quale ruolo Greene abbia recitato nella vita. Una spia che copriva il suo lavoro di agente con l’attività di scrittore (fu amico, sin dal periodo oxfordiano di Kim Philby, la spia inglese che faceva il doppiogioco con i sovietici, e poi, per un periodo, suo “dipendente”), oppure uno scrittore che si dilettava, di tanto in tanto, a passare informazioni al MI6 (come il protagonista naïve di Our Man in Havana)? “Il limite esiguo tra lealtà e slealtà – scrive il giallista Giuseppe Fiori – sono la contraddizione dell’anima dei personaggi di Graham Greene e della sua stessa vita”. Anche sul piano sentimentale egli amò diverse donne, tra cui Dorothy Glover, Chaterine Waltson (per la quale lasciò moglie e figli, senza mai divorziare da Vivien), Ivonne Cloetta (negli ultimi venti anni della sua vita), per cui è arduo per i biografi tracciare i percorsi del suo cuore.
LA RICONVERSIONE: DALLO SPIONAGGIO AL CONFESSIONALE
Certo Graham Greene dovette soffrire per non riuscire a vivere da cattolico “praticante”: i suoi tentennamenti morali ricordano in parte quelli di James Joyce. Quando fu ricevuto da Paolo VI, il 13 luglio 1965, egli viveva un periodo in cui si era allontanato dai sacramenti, e si definiva “cattolico agnostico”. Paolo VI, non lo rimproverò, anzi gettò con carità un piccolo seme di misericordia nel suo cuore che, trenta anni dopo, avrebbe portato i suoi frutti. Infatti, come accadde a un altro grande inglese, Alfred Hitchcock, cresciuto tra salesiani e gesuiti, poi per anni lontano dai sacramenti, giunto alla fine della sua avventura terrena, anche Graham, come Alfred, tornò alla messa. Il lungo viaggio in treno che lo trasportò tra amori, avventure nei servizi, attraversando i boschi narrativi della letteratura, era arrivato a Istanbul. Il 31 marzo, giorno di Pasqua, prendeva l’Eucarestia grazie al padre spagnolo Leopoldo Durán, suo amico. Il 3 aprile 1991 scendeva dal treno. A 86 anni. In Svizzera, a Vevey, dove si era ritirato, a due passi da un altro londinese, Charlie Chaplin. I due, innamorati della fiction, si erano frequentati negli anni Settanta e sicuramente avranno parlato di un poveraccio finito in croce, cui Chaplin si era ispirato.
(Foto: Cover Dvd di The Third Man)