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Guerra dei mari, perché vinceremo noi. Intervista esclusiva a James Stavridis

Intervista all’ammiraglio James Stavridis, già comandante supremo delle Forze Nato e del Comando Usa in Europa. Entro quindici anni rischiamo una guerra mondiale tra Cina e Usa, l’Occidente vincerà grazie alle sue forze navali. La Russia è una potenza in declino, per questo è una minaccia e l’Italia deve spazzare ogni ambiguità. Libia? Roma guidi le operazioni Ue nel Mediterraneo. Turchia? Un alleato strategico, ma Erdogan cambi passo

Se mai il mondo dovesse riaffacciarsi sull’orrore di una nuova guerra globale, questa sarebbe combattuta fra Stati Uniti e Cina. Non è solo una profezia quella pronunciata dall’ammiraglio James Stavridis nel suo recente libro con Elliot Ackermans, “2034, a novel of the World War”. “Nel giro di quindici anni la miccia potrebbe accendersi”. Già comandante supremo delle forze Nato e a capo del Comando americano in Europa sotto l’amministrazione di Barack Obama, il primo ammiraglio a ricoprire questi ruoli, Stavridis è tra i più decorati e rispettati vertici delle Forze militari americane nonché apprezzato stratega e opinionista. In questa intervista con Formiche.net l’ammiraglio legge in controluce la politica estera di Joe Biden, la battaglia navale in corso nel Mediterraneo e la minaccia per l’Europa e per l’Italia di Mario Draghi da parte di una Russia che è “una potenza in declino” e proprio per questo “è più pericolosa che mai”. 

Ammiraglio, nel suo ultimo libro prevede una nuova Guerra Mondiale con la Cina entro il 2034. È davvero uno scenario credibile?

Purtroppo sì, da qui a 15 anni. Cina e Stati Uniti sono su fronti opposti su tanti temi cruciali e le distanze sono destinate a restare, dallo status di Taiwan alle navi nel Mar Cinese Meridionale, dalla guerra cyber a quella dei dazi fino alle violazioni dei diritti umani. Entrambi continueranno ad aumentare le capacità militari e potrebbero giungere a un punto di non ritorno.

Chi uscirebbe vincitore da un conflitto?

In una guerra globale non ci sono veri vincitori. Al termine del conflitto le due nazioni si scoprirebbero esauste e non avremmo un responso univoco. Anche perché una guerra del genere potrebbe coinvolgere le armi nucleari. Per questo va evitata a tutti i costi.

Come possono Europa e Stati Uniti avere la meglio nel dominio cibernetico?

Ci sono quattro passi fondamentali. Lavorare fra alleati condividendo i dati e i risultati della ricerca. Investire più fondi pubblici nella sicurezza cyber. Aumentare la qualità dell’istruzione universitaria in materie scientifiche come l’ingegneria e la matematica. Costruire una nuova struttura di coordinamento che includa la Nato, l’Ue e alleati asiatici come il Giappone.

Qual è il più grande vantaggio competitivo di Stati Uniti e Nato sulla Cina?

La loro flotta navale. La Cina ha più navi da guerra degli Stati Uniti. La Nato unita, insieme al Giappone e all’Australia, ne ha molte di più. E soprattutto ha una maggiore potenza di fuoco. Non c’è paragone fra le portaerei a propulsione nucleare americane e quelle cinesi. Ma c’è un altro vantaggio.

Quale?

Noi abbiamo la Nato. La Cina sta muovendo qualche passo verso la Russia, ma non può vantare un’alleanza come quella atlantica. Infine, siamo tutte democrazie. E questo è un altro vantaggio: c’è chi pensa che un governo autoritario sia più efficiente, ma nel lungo periodo sono tutti soggetti a gravi turbolenze interne.

Lei è stato a capo del comando europeo della Nato. Un’alleanza nata per contenere un avversario: la Russia. Pensa che sia arrivato il tempo di un nuovo approccio strategico verso la Cina?

Decisamente sì. Ho parlato con Stoltenberg due settimane fa, mi ha personalmente assicurato che la Cina avrà un posto più rilevante nell’agenda Nato. Anche per questo l’alleanza si sta concentrando sulla sicurezza cyber. Qualcuno dice che la Nato è un’alleanza geografica limitata all’Atlantico del Nord, in parte è vero. Ma ha già operato al di fuori di quell’area, come in Afghanistan, e non può ignorare una minaccia globale come quella cinese.

Alcuni Paesi europei, come Regno Unito, Francia e Germania, stanno guardando con crescente interesse all’area dell Indo-Pacifico. È una regione dove l’Europa può fare la differenza?

Assolutamente. L’apporto di questi Paesi, insieme ad alleati come Giappone e Australia, alle operazioni per la libertà di navigazione, il loro invio di navi di guerra battenti bandiere nazionali nel Mar Cinese Meridionale sono fondamentali. Dimostrano alla Cina che non siamo disposti ad accettare inerti le sue rivendicazioni territoriali su un’area grande quanto la metà degli Stati Uniti. Se Pechino avesse la meglio, sarebbe la fine della libertà di navigazione negli oceani di tutto il mondo.

Crede che l’Italia dovrebbe dare il suo apporto?

Io spero che l’Italia si unisca a questo sforzo. Ovviamente sono decisioni che spettano al popolo e al governo italiano. Da americano e da ex ufficiale navale, posso solo testimoniare che le navi italiane sono professionali, capaci, e in grado di essere dispiegate in qualsiasi area del mondo. Soprattutto all’interno di una missione con altri alleati europei.

Finora la diplomazia e la Difesa italiana hanno concentrato i loro sforzi nell’area mediterranea e in particolare in Nord Africa. Con l’amministrazione Biden bisogna aspettarsi un più diretto impegno degli Stati Uniti in Libia?

Biden ora ha tre priorità: la pandemia, l’economia e le sfide di politica interna. Sul piano internazionale, in cima all’agenda c’è la sfida cinese e la diplomazia con l’Iran, nella speranza di tornare a un accordo sul nucleare. È perfettamente a conoscenza della preoccupazione europea per l’immigrazione e l’instabilità del Mediterraneo. E gli Stati Uniti continueranno a impegnare unità navali in quell’area. Ma voglio chiarire un punto.

Prego.

La guida di queste operazioni nel Mediterraneo deve restare in mano all’Europa. L’Italia può e deve avere un ruolo di leader e di coordinamento delle missioni.

In quell’area c’è anche la Russia. Nelle scorse settimane Mosca ha fatto uscire dal Mar Nero le sue navi e i suoi sottomarini. Cosa sta succedendo nel Mediterraneo orientale?

Ci sono tre ragioni per questa dimostrazione di forza. La prima è ribadire la vicinanza della Russia alla Siria e al suo alleato Bashar al Assad, un criminale di guerra e un dittatore con centinaia di migliaia di morti sulla coscienza. La seconda è presidiare le opportunità energetiche e di estrazione di petrolio e gas nell’East Med. La terza, infine, è rivendicare il completo controllo del Mar Nero per ricordare al mondo di essere una potenza navale e per pattugliare le acque intorno alla Crimea.

A proposito di Russia, Biden l’ha definita una “potenza in declino”. Concorda?

Non c’è alcun dubbio, la Russia è una potenza al tramonto. La sua popolazione sta invecchiando rapidamente, alla fine del secolo sarà inferiore a quella turca. L’aspettativa di vita sta crollando, i tassi di alcolismo sono senza precedenti, l’economia si regge solo su gas e petrolio, e come la Cina non può vantare veri alleati. Questo suo declino è un problema.

Perché?

Perché per nasconderlo il governo russo aumenta la sua assertività all’estero, così da potersi presentare come grande potenza sul piano interno. Putin continuerà ad avallare operazioni come la guerra in Ucraina o in Siria e le interferenze nelle elezioni americane. Niente di più pericoloso di una nazione debole che vuole sembrare forte.

L’Italia sembra voler optare per un approccio “pragmatico” nei rapporti con la Russia. Crede che servirebbe una più chiara scelta di campo?

L’Italia dovrebbe a mio parere convincere Putin a collaborare con l’Occidente e invitarlo a non cedere all’abbraccio cinese. Ben venga dunque il dialogo, purché non ci siano equivoci sulle minacce poste da Mosca, dall’invasione in Crimea e Georgia alle interferenze nelle democrazie, e sulle sanzioni da imporre per contenerle. Non si può rimanere in silenzio di fronte a un evento come l’avvelenamento di Alexei Navalny.

Un altro Paese con cui l’Italia di Mario Draghi cerca un nuovo rapporto è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. In questi anni non sono mancate tensioni fra Washington e Ankara. È ancora da considerare un alleato della Nato?

Da ex comandante delle forze Nato in Europa, posso garantire che la Turchia ha sempre risposto alla nostra chiamata, inviando soldati in Afghanistan e nei Balcani, navi da guerra dove fosse necessario. A Kabul e nella regione centrale irachena i turchi hanno fatto un ottimo lavoro, proprio come gli italiani a Ovest. C’è ovviamente un problema.

Quale?

Il continuo tentativo di allontanarsi dal perimetro della Nato. Come l’acquisto dei missili russi S-400, che sono e restano incompatibili con i jet F-35. La Turchia è ancora un alleato strategico per l’alleanza. Ma per Erdogan è arrivato il momento di fugare qualsiasi ambiguità.

(Foto: World Economic Forum)

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