Le dimensioni degli sconvolgimenti in atto per le imprese sono nascoste dall’ampiezza dei sostegni pubblici. In particolare, la distorsione e i rischi nella struttura del capitale delle imprese nel senso del debito (excess leverage) non appaiono ancora in tutta evidenza, perché i dati finora disponibili non la rivelano a sufficienza. Ma i segnali non mancano e le simulazioni econometriche li confermano
Il superamento della pandemia e delle conseguenti restrizioni si sta rivelando un percorso più difficile e lungo del previsto, obbligando lo Stato a offrire in qualche misura compensazioni alle imprese e ai lavoratori per le perdite di reddito sofferte. Benché la copertura sia stata parziale rispetto ai cali di fatturato e al peso di costi incomprimibili, la politica di aiuti non si è fermata ma ha continuato a svolgersi in parallelo alle restrizioni mediante una diversità di strumenti e con un crescente grado di selettività quanto ai beneficiari. In una prima fase i sostegni sono stati concessi con una bassa selettività, per la difficoltà di individuare in tempi rapidi un preciso perimetro di imprese particolarmente danneggiate dalla crisi e meritevoli di aiuto.
Tra le imprese, le Pmi hanno ricevuto una particolare attenzione perché si addensano nei comparti dei servizi maggiormente esposti alla diffusione del morbo e quindi soggetti alle maggiori restrizioni per più lungo tempo. Nella fase successiva, dall’estate dello scorso anno, l’offerta di aiuti è divenuta più selettiva nel delimitare la platea obiettivo e nella sua destinazione economica, dando più spazio agli incentivi per investimenti, ricerca, innovazione, economia verde e digitalizzazione, in breve a fattori trainanti per un duraturo rilancio della crescita economica.
Nondimeno, la crescente selettività non garantisce che non ricevano aiuto imprese non in grado di competere sul mercato una volta superata la pandemia, né assicura che quelle dal maggior potenziale abbiamo tutto il supporto necessario ad esprimerlo. La selezione tra meritevoli e non, invero, è un esercizio complesso che non può semplicemente condursi sulla base di parametri precodificati perché vi sono variabili imprevedibili o imponderabili ex-ante (e monitorabili solo ex-post, un problema che va al di là del noto rischio nel rapporto principale-agente). In questi casi si dovrebbe simulare un esercizio di “stress test” come si applica alle banche per verificare la loro resilienza in fasi di recessione economica, ma, a parte la sua praticabilità per migliaia di imprese, lascerebbe ampi margini d’incertezza nella fase attuale.
La grave crisi ha modificato i comportamenti di imprese, famiglie e responsabili delle politiche in misura tale da non lasciare presagire che una volta superata la pandemia il sistema ritorni alla normalità ex-ante. La stessa crisi ha accelerato il ritmo del cambiamento già avviato dall’irrompere di nuove, pervasive tecnologie, assecondando profondi cambiamenti dei mercati tanto interni che internazionali. Le evidenze sono molteplici e visibili non solo nell’esplosione della spesa pubblica e del debito pubblico che hanno raggiunto proporzioni rispetto al PIL viste solo in un passato lontano. La politica monetaria ultra-accomodante, le garanzie pubbliche sui nuovi prestiti bancari, la moratoria sui rimborsi di prestiti e i finanziamenti pubblici, diretti ed indiretti, hanno incentivato il ricorso all’indebitamento più per sopravvivere che per investimenti. I provvedimenti del governo hanno anche bloccato le dichiarazioni di fallimento e le procedure esecutive, col risultato anomalo di ottenere in un anno di grave recessione una riduzione dell’incidenza dei crediti deteriorati e dei fallimenti.
Di fatto le dimensioni degli sconvolgimenti in atto sono nascoste dall’ampiezza dei sostegni pubblici. In particolare, la distorsione e i rischi nella struttura del capitale delle imprese nel senso del debito (excess leverage) non appaiono ancora in tutta evidenza, perché i dati finora disponibili non la rivelano a sufficienza. Ma i segnali non mancano e le simulazioni econometriche li confermano. Ad esempio, il Cerved stima che il tasso d’insolvenza sul portafoglio di crediti salirà dal 4,5% del 2019 al 6% del 2021 con un livello più elevato tra le piccole imprese (dal 6% al 7,4%) e tra le medie (dal 7,7% all’8,6%) e con una concentrazione nel Mezzogiorno. La Banca d’Italia, tenuto conto del ciclo economico e delle procedure esecutive bloccate dalle misure pubbliche, calcola un incremento del 60% nel numero dei fallimenti entro il 2022.
La fragilità finanziaria di molte imprese e specialmente delle Pmi, seppure alleviata dalle misure monetarie, sussiste e pone il quesito se sia superabile in presenza di una vigorosa ripresa dei fatturati e del mantenimento di un atteggiamento accomodante da parte della Bce e delle autorità di supervisione bancaria. Queste ultime, tuttavia, hanno già iniziato a cambiare registro, applicando norme più stringenti nei tempi oltre i quali i prestiti vanno classificati nei “deteriorati” (la cosiddetta regola del calendario) e mantenendo al 31 giugno prossimo la scadenza delle moratorie sui crediti. Ne seguirà probabilmente un atteggiamento restrittivo delle banche verso la concessione di nuovo credito alle imprese indebitate con ripercussioni negative sulla ripresa economica.
Nell’attuale condizione di pandemia non ancora piegata e di prolungate restrizioni per contenere i nuovi contagi lo scenario che appare più plausibile vede un recupero graduale delle attività e la necessità di mantenere ancora per diversi mesi il sostegno pubblico alle imprese. La sua destinazione e le modalità, tuttavia, non possono che divenire più selettive per non mantenere artificialmente in vita quelle incapaci di stare sul mercato con i propri mezzi e per assecondare la riallocazione delle risorse verso aziende ed impieghi remunerativi, che accrescano il potenziale di sviluppo economico. Una politica di aiuti indiscriminati che ritardi il processo di ricambio tra imprese in implosione e quelle in espansione, oltre a gravare su una finanza pubblica ai limiti della sostenibilità, pregiudicherebbe la capacità di crescita dell’economia nel medio periodo.
In questa prospettiva, come individuare chi è meritevole di un prolungato sostegno nella fase di uscita dalla recessione? Diversi criteri sono possibili ed alcuni esercizi sono stati condotti. Si potrebbe usare come metro il criterio secondo cui sono meritevoli quelle aziende che prima della pandemia, ovvero nel 2019, mostravano di avere chiuso i loro bilanci in utile, o avevano consistenti flussi di cassa. Tuttavia, la pandemia e la rapida avanzata della rivoluzione tecnologica hanno modificato le condizioni dei mercati e i modelli di business a tal punto da impedire che si possano proiettare nel futuro i buoni andamenti del periodo pre-Covid per continuare a considerare quelle imprese con lo stesso merito di credito.
Naturalmente, anche le banche hanno modificato i loro modelli di scoring e di valutazione del rischio di credito, col risultato che per stabilire dove indirizzare l’aiuto pubblico ci si potrebbe semplicemente affidare alla selezione operata dalle banche, sempre che sia complementare alla loro partecipazione al rischio del finanziamento. Ma anche questi modelli sono divenuti in parte obsoleti a causa dei cambiamenti intervenuti durante la recessione e quindi non offrono un supporto adeguato. Inoltre, le banche propenderebbero per atteggiamenti restrittivi. Sappiamo, peraltro, che molte preferiscono rinnovare i loro crediti alla scadenza per evitare di catalogarli tra i deteriorati e dover quindi accusare perdite e fare nuovi accantonamenti a riserva.
Un’applicazione più elaborata dei metodi di scoring delle banche è stata impiegata dal Cerved group (una società di analisi finanziaria) per tenere conto degli effetti della pandemia sui vari settori economici e delle informazioni su un milione di imprese finanziate dalle banche. Dal confronto tra il periodo pre-Covid e il dopo Covid si stima che 81 mila imprese sono destinate al fallimento, 182 mila da sane sono divenute vulnerabili e 9,3 mila rischiose, e 181 mila da vulnerabili sono passate alla categoria a rischio. Se si adottasse questo criterio, si dovrebbero escludere dall’aiuto le categorie più rischiose.
Un criterio diverso è applicato dall’Istat in una recente indagine campionaria. Attraverso un’analisi econometrica di un campione rappresentativo con un focus sulle variabili particolarmente interessate dalla crisi hanno individuato 4 gruppi di tipologie: le imprese statiche in crisi, quelle proattive in sofferenza, le statiche resilienti, le proattive in espansione e le proattive avanzate. Il gruppo di quelle in crisi è risultati pari al 28,6% del campione ed è costituito dalle imprese col minor numero di addetti in media (6,5). Con metodi simili si potrebbero individuare indicatori per selezionare le imprese da sostenere.
Un indicatore migliore potrebbe derivarsi dalla capacità mostrata dall’impresa di adattarsi alle nuove condizioni di mercato e di difenderne la sua quota, nonostante l’eccessivo indebitamento, ma è osservabile ex-post. Meglio affidarsi al vincolo di destinazione economica dell’aiuto, ovvero condizionarlo all’attuazione di specifici investimenti in innovazione, ricerca, digitalizzazione, formazione in nuove competenze, internazionalizzazione, riorganizzazione aziendale per applicare nuove tecnologie. In parte le misure governative si muovono in questa direzione, ma vanno accompagnate dalla graduale eliminazione di quelle che ritardano l’emergere delle imprese insolventi, quali le moratorie e i blocchi delle procedure.
Cancellare una parte del debito, oppure ristrutturarlo su lunghe scadenze con una componente di abbuono presenta costi e inconvenienti. Per il creditore pubblico implica una perdita patrimoniale a fronte di un debito contratto come contropartita. Costituirebbe un cattivo precedente che condiziona il merito di credito del debitore. Per le banche creditrici, la perdita andrebbe compensata da accantonamenti a riserva e riduzione delle redditività del capitale in una fase di già bassi ritorni sul capitale.
Trasformare una parte del debito in una partecipazione al capitale comporta costi, ovvero partecipazione al rischio di impresa, dover gestire una moltitudine di partecipazioni di entità relativamente modesta, resistenza del debitore ad accettare investitori esterni ed incertezze sull’esito dell’investimento. Una strada imboccata dal governo consiste nel promuovere la ricapitalizzazione delle società e delle Pmi attraverso due canali, con incentivi fiscali agli aumenti di capitale e mediante il finanziamento di fondi di investimento, o fondi dei fondi, o venture capital, specializzati nell’acquisire partecipazioni nel capitale di Pmi. Questo è il caso del fondo Patrimonio Rilancio costituito con risorse pubbliche e gestito da Cdp. Si sta altresì considerando la costituzione di un altro fondo per salvare con finanziamenti pubblici aziende ritenute importanti. Si potrebbe anche intervenire concedendo più consistenti incentivi per gli investitori nel venture capital. Queste misure sono utili ed innovative; tuttavia, l’ammontare di risorse allocate è necessariamente limitato, né sembra giustificato il ritorno di una diffusa presenza della proprietà pubblica nel mondo delle imprese. Un simile ritorno potrebbe condurre allo stesso esito fallimentare che si è visto nel passato.
La leva più efficace consiste, piuttosto, nel mobilitare il capitale privato, compresi i risparmiatori e gli investitori istituzionali, perché contribuiscano al rafforzamento patrimoniale delle imprese, un risultato raggiungibile solo se si realizzassero condizioni appropriate. In particolare, occorrono un ambiente più favorevole per fare impresa e per attrarre i finanziatori, un trattamento fiscale che consentisse un maggior rendimento del capitale investito, e un atteggiamento cooperativo delle istituzioni. In sostanza, occorrono riforme di sistema di ampio respiro e profondità, anziché il solito assistenzialismo.