Tra le elezioni in Israele (e in Iran), il JCPOA, gli Accordi di Abramo e l’influsso americano, la scacchiera mediorientale è in evoluzione. Resoconto del live talk di Formiche con Cinzia Bianco (ECFR), Yossi Melman (Haaretz) e Aaron David Miller (Carnegie Endowment)
Si riaccendono i riflettori sul Medioriente. Stando a Politico, lo staff di Joe Biden si starebbe preparando a sbloccare il negoziato sul nucleare iraniano (il JCPOA) proponendo un allentamento delle sanzioni americane sul regime iraniano se Teheran accetta di rallentare l’avanzamento di alcuni programmi, tra cui l’arricchimento dell’uranio e le centrifughe avanzate. La proposta dovrebbe vedere la luce già questa settimana.
La Repubblica Islamica, però, non ci sta. Un alto ufficiale del governo ha controbattuto per mezzo dell’emittente statale Press TV, dichiarando che l’Iran arresterà lo sviluppo nucleare e fermerà l’arricchimento dell’uranio al 20% (in linea con il JCPOA) solo se Biden rimuoverà completamente le sanzioni. “L’amministrazione Biden sta perdendo tempo”, ha detto l’ufficiale, “e se non rimuoverà le sanzioni a breve l’Iran affronterà le prossime tappe, riducendo ulteriormente il suo impegno nei confronti del JCPOA”.
Probabilmente lo stallo inaugurato dalle sanzioni unilaterali di Donald Trump è destinato a protrarsi. Intanto, però, il panorama mediorientale sta cambiando. Le recenti elezioni israeliane potrebbero risultare in un cambio alla guida del Paese (difficile, ma possibile); gli Accordi di Abramo stanno riequilibrando le relazioni tra Israele e diversi stati a maggioranza araba, con la complicità degli Stati Uniti, che però si sono distanziati dall’Arabia Saudita; infine, gli stessi iraniani voteranno a giugno, e diversi analisti si aspettano un governo più aggressivo e intransigente in politica estera – un problema di sicurezza per il resto della regione, specie Israele.
Dossier interconnessi, in cui l’America rientra a pieno titolo attraverso le sue relazioni con i Paesi mediorientali e la declinazione anti-Iran degli Accordi di Abramo. Molto dipenderà dalla posizione americana, che finora pare essere più conciliatoria rispetto alla precedente amministrazione; ma come ha evidenziato Aaron David Miller (ex funzionario del dipartimento di Stato, oggi Senior Fellow del Carnegie Endowment for International Peace ed esperto analista mediorientale), il JCPOA non va giù a diversi democratici oltre alla totalità dei repubblicani, per non parlare del premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu.
Parlando al live talk organizzato da Formiche (qui il video), Miller ha spiegato i motivi per cui crede che i negoziati sul JCPOA rimarranno in stallo: “non ci sono abbastanza pressioni per rientrarci, né abbastanza prospettive di guadagno” da parte americana. Biden, ha detto, assomiglia più al tradizionalista Bill Clinton che non al progressista Barack Obama perché favorire Israele è un’attitudine “profondamente radicata nel [loro] DNA”. Ciò detto, il presidente in carica non sta nemmeno cercando il conflitto; la sua è un’agenda di politica estera “più transazionale che trasformativa” e si tradurrà in “competizione organizzata” con l’Iran nel migliore dei casi, “ostilità organizzata” nel peggiore.
Il cambio alla Casa Bianca ha già impattato Israele, ha osservato Yossi Melman, storica firma di sicurezza e intelligence, al live talk. Si tratta di un cambiamento “semantico” ma significativo, perché Netanyahu non parla più dell’Iran come una “minaccia esistenziale”, come invece faceva quando era forte del sostegno incondizionato dell’amministrazione Trump. Secondo Melman Israele continuerà a opporsi al JCPOA a livello superficiale, mentre l’establishment militare in realtà favorirebbe l’approccio diplomatico. Comunque vada, gli Accordi non si toccano.
Per Cinzia Bianco, Visiting fellow dell’European Council on Foreign Relations con focus sui Paesi arabi e del Golfo, la data chiave per il futuro del JCPOA rimane quella delle elezioni iraniane di giugno. Intanto Teheran gioca al rialzo, ha spiegato, presentando ai sottoscrittori del JCPOA un aut-aut che rende più difficile il progredire dei negoziati. Vitale l’apporto degli Usa, senza i quali ci sarebbe stato pochissimo interesse da parte dei Paesi arabi per entrare negli Accordi di Abramo secondo Miller; ma come ha spiegato Bianco, queste alleanze sono state progettate per sopravvivere ai leader dei singoli Paesi.
È da leggere in tal senso l’accusa emiratina a Netanyahu di usare gli Accordi per fare campagna elettorale. Il piccolo stato del Golfo, ha spiegato Bianco, è impegnato a crescere: far fronte comune con gli israeliani contro l’Iran, la più grande minaccia locale, accattivarsi le grazie e gli F35 americani nel processo e rinforzare i legami tecnologici con Israele, funzionali per reinventare il Paese del futuro e svezzarlo dagli idrocarburi.
Si tratta di un segnale a tutti i contraenti degli Accordi, inclusi quelli occulti come l’Arabia Saudita: si parla di un patto duraturo, benefico per la stabilità regionale e tutte le parti in causa, inclusa la minoranza palestinese sotto l’ala degli stati arabi (la condizione imposta a Israele dagli Usa era di non annettere la Cisgiordania, un’idea con cui Netanyahu aveva flirtato).