In un mondo invaso dal greenwashing, le grandi multinazionali tecnologiche sono effettivamente un passo avanti nell’uso di energia pulita, anche se l’impatto ambientale dell’industria tech resta alto. Dai bit ai bitcoin, ecco progressi e sfide verdi per Silicon Valley
Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft: le punte di diamante dell’economia americana e tra le più quotate (e ricche) sul pianeta. Ma Big Tech primeggia anche in un’altra area: stando al Financial Times, queste multinazionali sono diventate le più grandi clienti di energia pulita al mondo.
Il primato è quasi d’obbligo per compagnie che si fregiano di inventare il futuro, ma effettivamente sono state loro a iniziare la corsa industriale all’energia pulita. Successe nel 2010, quando Google firmò il primo accordo di fornitura d’elettricità direttamente con le aziende produttrici di energia rinnovabile. Le altre, in competizione perenne, seguirono a ruota, innescando una gara al rialzo sugli obiettivi di sostenibilità ben prima che la questione irrompesse nel mainstream.
Il ragionamento di Big Tech è pragmatico almeno quanto è ambientalista: devono sostenere le loro operazioni di funzionamento per decenni e hanno i soldi per stringere accordi a lungo termine di quel tipo, mentre capitalizzano sul ritorno d’immagine e sull’espansione dei loro servizi. Considerando la loro crescita meteorica (il fabbisogno energetico di Facebook, ad esempio, è quadruplicato negli ultimi 5 anni), l’affare ha ancora più senso.
Perciò Big Tech ha interesse e si può permettere di raggiungere la neutralità climatica ben prima di altri attori globali, nazioni incluse. Apple, ad esempio, ha dichiarato che il 100% dell’energia che consuma proviene da fonti rinnovabili, e Google ha annunciato a settembre 2020 di aver raggiunto la neutralità carbonica, ossia il bilanciamento della CO2 prodotta tramite acquisto di energia verde o investimenti decarbonizzanti. Seguendo le stesse logiche, Microsoft vuole raggiungere la negatività carbonica (eliminare più CO2 di quanto ne produce) entro il 2030.
L’industria tecnologica globale, includendo server, reti di telecomunicazione e i singoli dispositivi, produce tra l’1,8 e il 2,8 per cento di gas serra, più o meno quanto il settore aeronautico. I data center in particolare fagocitano quantità immense di energia per operare e raffreddare le file sterminate di server su cui si appoggia gran parte dell’internet come lo conosciamo. Per mettere i dati in prospettiva, basti pensare che i 45 terawattora annuali consumati da Big tech equivalgono al fabbisogno annuale della Nuova Zelanda.
Per di più si tratta di un settore in fortissima crescita, anche e soprattutto in tempi di pandemia. Anche se i computer diventano più efficienti (nel senso che compiono più operazioni con meno energia) l’adozione di tecnologie a maggiore consumo, come l’intelligenza artificiale o lo streaming di massa, sta mandando alle stelle il bisogno tecnologico di elettricità. Per non parlare di realtà come i Bitcoin, la valuta virtuale il cui mantenimento consuma più dell’intera Argentina a livello globale (qui un indice ad hoc).
Chiaramente sarebbe ingenuo scommettere sul cuore “verde” dei CEO tecnologici. Secondo FT e Greenpeace, la pressione congiunta dell’opinione pubblica e degli impiegati (unita alla necessità di tenerseli buoni, comportandosi da “top employer”) ha contribuito a far muovere Big Tech sull’energia rinnovabile anzitempo. Una dinamica su piccola scala di quello che oggi si osserva a livello internazionale.
Prendiamo il caso di Amazon, che consuma molto più di realtà come Google o Microsoft perché deve far funzionare i magazzini di stoccaggio e le consegne oltre ai suoi immensi data center. Il CEO Jeff Bezos non sembrava nemmeno particolarmente intenzionato a entrare nell’arena verde, al contrario dei suoi dipendenti, che aderirono en masse a una protesta per il clima nel 2019, organizzata in concomitanza con quella dell’attivista per il clima Greta Thunberg. Il giorno prima della protesta Bezos passò al contrattacco: promise emissioni neutrali entro il 2040, furgoni elettrici e l’acquisto di tanta energia pulita quanta ne produce l’intera Amazon entro il 2025.
C’è di buono che la spinta verde delle Big Tech americane, che non ha perso vigore nemmeno durante il quadriennio dell’amministrazione Trump, ha contribuito all’innesco di un circolo virtuoso: maggiore la domanda di energia pulita – e maggiori le pressioni degli investitori, ora che l’emergenza climatica preoccupa una fetta importante della popolazione –, più saranno gli investimenti in energie rinnovabili. Questo comporta la crescita dell’offerta di energia pulita, e la concorrenza ne abbassa il prezzo, allargando la base di potenziali clienti. E così via.
“Vogliamo green the grid (inverdire la rete elettrica) per tutti,” ha dichiarato Amanda Peterson Corio, a capo del rifornimento energetico per i data center di Google. E l’effetto e tangibile: ad oggi, secondo la Renewable Energy Buying Alliance, le compagnie americane hanno comprato 10,6 gigawatt di energia pulita nel 2020.
Secondo FT è solo una questione di tempo prima che Big Tech si butti nel settore energetico e nell’immagazzinamento di energia (à la Tesla). Si tratta di una rivoluzione sistemica, un ambientalismo pragmatico che anticipa e concorre a realizzare gli obiettivi di sostenibilità concordati nel 2015 a Parigi. Ci si aspetta che l’amministrazione Biden acceleri sulle politiche e gli incentivi di sviluppo sostenibile, e contribuisca nei forum multilaterali all’avanzamento dei progressi climatici.