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Letta c’è! Ma sarà dura… Il barometro di Arditti

Al netto del largo attestato di stima, l’arrivo di Letta basterà per guarire definitivamente il Pd dai suoi mali endemici? Il compito appare più che mai arduo. I dissidi che attraversano il partito restano infatti platealmente sotto gli occhi dell’elettorato. L’analisi di Roberto Arditti con i numeri di Swg

Richiamato in fretta e furia da Parigi per salvare quello stesso partito che nel febbraio 2014 lo aveva sfiduciato, giudicandolo un primo ministro troppo timido e troppo poco energico per riuscire a stare al passo con i ritmi incalzanti del renzismo arrembante.

Sette anni dopo Enrico Letta si prende la sua rivincita personale, acclamato come “l’uomo della provvidenza”, l’unico in grado di curare il Partito Democratico dal virus del correntismo che per l’ennesima volta ne mette a repentaglio l’esistenza.

806 voti favorevoli, 2 contrari e 4 astenuti: questi sono i numeri con i quali l’assemblea PD consegna al professeur Letta le chiavi del partito, aprendo una stagione di pacificazione (perlomeno apparente). Numeri che però tradiscono una unanimità di facciata assai meno concreta di quanto possa apparire.

Ad ogni modo l’ex premier torna nell’agone, cercando di darsi un profilo del tutto nuovo, forte dell’esperienza di direttore della Scuola di Affari Internazionali di Sciences Po, l’ateneo francese che da sempre forgia l’élite nazionale.

Il Letta di oggi appare infatti diverso da quello di sette anni fa: meno politico e più tecnico, più inserito nel contesto europeo di “quelli che contano”. Ed anche il suo discorso riflette questa metamorfosi, nel tentativo di assestare uno scossone ad un partito ombelicale, impegnato a disputare molto di poltrone mentre in quasi tutta Italia si abbassano nuovamente le serrande.

Un discorso ecumenico, quello di Letta, che cerca di tenere insieme tutte le anime dei Dem a partire da un potpourri di riferimenti e citazioni: Papa Francesco, Berlinguer, Prodi, Andreatta, Delors e Don Mazzolari. E ancora: Sartre, Pirandello e Manzoni. Ma non per questo un discorso neutro, perché in fondo ha comunque marcato un territorio dichiarando apertamente la condizione di alternativa all’euro forze di destra.

Spostiamoci ora da Enrico Letta al partito che sta per guidare. Ci aiuta il lavoro Swg, capace di spiegarci che gli elettori Pd appoggiano in larga maggioranza il suo approdo alla segreteria.

Ma al netto del largo attestato di stima, l’arrivo di Letta basterà per guarire definitivamente il Pd dai suoi mali endemici?

Il compito appare più che mai arduo. I dissidi che attraversano il partito restano infatti platealmente sotto gli occhi dell’elettorato. Ben il 75% dei sostenitori Dem afferma che le dimissioni di Nicola Zingaretti rappresentano il segno di una spaccatura profonda nel partito, dilaniato dalle logiche correntizie.

Ed anche Arturo Parisi, fondatore dell’Ulivo nel 1995 insieme a Romano Prodi, in un’intervista al Messaggero mette in guardia Letta “dall’unanimismo di facciata” che più volte ha caratterizzato il campo del centrosinistra. Il pericolo, sostiene Parisi, è quello di rinunciare ipocritamente ad un confronto alla luce del sole per poi ritrovarsi a regolare i conti nel “buio del voto segreto”.

Il ritorno di Enrico Letta rischia dunque di non essere sufficiente per cancellare le faide di lungo corso che attraversano il partito e, allo stato attuale, la litigiosità resta il problema più grande avvertito da oltre la metà dei suoi elettori (54%).

In particolare, sono le alleanze a rappresentare il vero pomo della discordia all’interno del Partito Democratico. Un nodo che Letta si è ben guardato da sciogliere, evitando di accendere la miccia del potenziale conflitto.

L’ex premier non ha affondato il colpo, pur evocando un composito quanto improbabile fronte anti-sovranista. Il campo allargato tracciato da Letta dovrebbe comprendere personalità molto diverse tra loro: Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli e Fratoianni, senza però sottrarsi al dialogo con i Cinque Stelle (guidati da Conte). Un’ipotesi non semplice da attuare visti i veti incrociati e i veleni che intercorrono tra questi leader.

È quindi evidente che un’idea chiara sull’identità del Pd ancora non c’è (e nemmeno sarebbe giusto pretenderla da Letta). L’unica certezza, per adesso, è che il partito entra in una fase nuova archiviando definitivamente la linea Zingaretti-Bettini, quella che vedeva in Conte l’interprete primario di un nuovo centrosinistra a trazione giallorossa. Un’ipotesi che oggi appare del tutto naufragata per tre ragioni essenziali.

In primis, perché è nato l’esecutivo Draghi su cui Letta intende fin da subito mettere il cappello (“il governo di Mario Draghi è il nostro governo. È la Lega che deve spiegare perché lo appoggia, non noi” ha detto l’ex premier).

In secondo luogo, poiché Giuseppe Conte oggi non è più una figura super partes capace di incarnare il punto di equilibrio di una ipotetica alleanza, visto che si appresta ad assumere le redini del M5S diventandone a tutti gli effetti il nuovo capo politico (su espressa volontà di Beppe Grillo).

Infine, perché Enrico Letta è tutt’altra cosa rispetto a Nicola Zingaretti: il primo è figlio della sinistra democristiana, il secondo è invece espressione della “ditta” erede del Partito Comunista Italiano. Due culture politiche che l’Ulivo prima e il Pd poi hanno tentato di fondere ma che ancora oggi non riescono a trovare una sintesi compiuta.

Letta sarà quindi presto chiamato ad indicare una direzione chiara, altrimenti il tentativo di accontentare un po’ tutti per non scontentare nessuno finirà per mandare il Pd a sbattere di nuovo contro un muro.

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