Il processo di stabilizzazione che porterà la Libia verso le elezioni di dicembre è ufficialmente partito con i giuramenti della nuova autorità esecutiva. Restano però fattori di tensione, il primo di tutti collegato alle volontà del signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar. E poi il ruolo del premier e il bilancio del Paese
Il Consiglio di presidenza libico e il nuovo governo hanno giurato lunedì 15 marzo rispettivamente a Tripoli e a Tobruk. Il presidente Mohammad Younes Menfi e gli altri due membri, Abdullah al Lafi e Musa al Kuni, hanno giurato nella capitale dando inizio al ruolo affidatogli dal Foro di dialogo libico – l’organismo che ha prodotto la votazione sulla nuova autorità esecutiva sotto egida Onu. Contemporaneamente, a Tobruk, davanti al Parlamento HoR, è toccato a Abdulhamid Dabaiba e i membri del suo governo.
Il processo di stabilizzazione è ufficialmente partito, sebbene permangano elementi controversi. A cominciare per esempio da uno simbolico che riguarda la scelta del luogo dell’incontro del governo. Inizialmente era stato organizzato a Bengasi, poi spostato a Tobruk per ragioni di sicurezza, secondo fonti sentite da Formiche.net. Bengasi è infatti il centro di potere di Khalifa Haftar, capo miliziano della Cirenaica che ha già tentato in passato di prendere il potere con la forza e che attualmente è ai margini del processo in corso.
Posizione che però non lo vede estraneo alle dinamiche nel Paese, anzi, secondo le informazioni disponibili raccolte su quel lato della Libia, il signore della guerra dell’Est è “piuttosto alterato da come stanno procedendo le cose”. Le sue istanze sono molto poco rappresentante nel nuovo esecutivo, e il comandante dei ribelli (che nelle sue azioni è stato sostenuto da Emirati Arabi, Egitto e Russia) non ha gradito l’allineamento che si è creato tra il primo ministro Dabaida e il presidente del parlamento Agila Saleh sulla spartizione delle deleghe governative.
Haftar resta dunque una bomba potenziale che può far deteriorare i passi in avanti fatti dalla Libia. Davanti a questa situazione alcuni ministri avrebbero chiesto per esempio di spostare il giuramento a Tobruk per paura che potesse succedere loro qualcosa (circostanza che il premier ha smentito); per esercitare pressioni su Haftar alcuni diplomatici occidentali hanno preso parte alla cerimonia (tra questi l’italiano Giuseppe Buccino, l’americano Richard Norland e il delegato dell’Ue Sabadell Jose).
Se il tema Haftar rimane a innesco potenziale, anche per la protezione e gli interessi che gli si muovono attorno, c’è un altro elemento che viene considerato già una minaccia, un peso sul nuovo governo. Dabaida potrebbe ambire a un allungamento del suo incarico, che il Foro ha previsto come processo ad interim per traghettare il Paese verso le elezioni indette per il 24 dicembre? Possibile. Su questo sia Saleh che Menfi sono stati chiarissimi, e nei momenti più importanti che negli ultimi giorni li hanno riguardati (la fiducia parlamentare per il primo, il giuramento per l’altro) hanno pubblicamente ribadito l’obiettivo limitato dell’esecutivo.
Ma c’è di più: secondo fonti sentite da Formiche.net, Menfi e i suoi due vice avrebbero rassicurato gli ambienti diplomatici occidentali che se dovessero percepire in Dabaida una volontà di andare oltre agli intenti per cui il Foro lo ha eletto, allora sono disposti a dare immediatamente le dimissioni in blocco e far crollare il castello istituzionale costruito dall’Onu. Un passo forte pur di fermare eventuali iniziative del primo ministro.
Iniziative di cui per ora non ci sono che ipotesi velleitarie, congetture più che altro: ma il fatto che Dabaida parta già con certi paletti – più Haftar, che fa sapere di non volerlo incontrare al momento – è indicativo del genere di tensioni che rimangono nel Paese.
Intanto, secondo un’esclusiva di Agenzia Nova, lunedì 22 marzo, il Parlamento libico si riunirà a Tripoli – per la prima volta dal 2014 – per votare il primo bilancio unificato da quando la Libia s’è divisa in due (governi) tra Tripolitania e Cirenaica sette anni fa. Il tema del bilancio unificato è un elemento allo stesso tempo di stabilizzazione e tensione. Se è vero che il lavoro per arrivare alla chiusura dell’intesa è fattore di unificazione, allo stesso tempo nel bilancio si riverseranno tutte le necessità che il governo ha dovuto soddisfare pur di ottenere la fiducia, e questo potrebbero produrre nervosismi.
(Foto: Twitter, @jose_sabadell)