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Moro, il compromesso storico e l’eredità politica. Il ricordo di Fioroni

Giuseppe Fioroni, deputato dem ed ex presidente della commissione d’indagine sul rapimento e sull’uccisione di Aldo Moro, nel giorno dell’anniversario della strage di via Fani, ricorda il presidente della Democrazia Cristiana

Erano i tempi del compromesso storico. Di Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Erano i tempi in cui la cravatta era d’ordinanza. Ed erano gli anni in cui si sparava. Lo sandalo Lockheed, il voto di fiducia del Pci (guidato da Enrico Berlinguer) al quarto governo alla cui testa c’era l’immarcescibile Giulio Andreotti. Poi la mattina, di quarantatré anni fa, che per tutti è diventata la ‘notte della Repubblica’. Una data, quella del 16 marzo 1978, “incancellabile nella coscienza del popolo italiano”, ha detto questa mattina il Capo dello Stato Sergio Mattarella ricordando i cinque agenti della scorta crivellati di colpi dai brigatisti rossi.

Il corso della Storia, ha aggiunto, fu segnato. E’ concorde, su questa linea, anche Giuseppe Fioroni. Esponente del Partito Democratico, ex ministro della repubblica. All’epoca dei fatti aveva vent’anni e militava nella Dc e nell’Agesci. Nella sua carriera politica, assunse anche l’incarico di presidente della commissione d’indagine sul rapimento e sull’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana. “Commemorare Moro è impegnativo – confessa subito Fioroni – la sua infatti è stata una figura centrale in tutta la storia dell’Italia repubblicana. La sua riflessione sui fondamenti della nostra democrazia e il suo progetto di uno Stato pluralista e centrato sull’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione costituiscono un lascito di idee ancora attuale”.

Partiamo dagli albori. Dall’esperienza della Costituente che, dice il dem, “è centrale per la biografia di Moro e per comprendere la sua azione politica successiva”. Fu infatti in questo frangente che il presidente Dc “sviluppò una visione politica, per nulla debole o compromissoria, centrata sull’aggregazione attorno a principi e programmi del più vasto consenso politico e sociale, per il tramite dei grandi soggetti collettivi”.

La visione che traspare dagli interventi di Moro, nell’ambito della Costituente, a detta di Fioroni è quella di uno “‘Stato di popolo’ nel quale la persona e le formazioni sociali contribuiscono allo sviluppo dello Stato ma sono tutelate da qualunque strumentalizzazione. Centrale rimane infatti l’idea di “dignità dell’individuo. Si colloca in questo ambito anche la concezione morotea del partito, che appare moderna e precorritrice. Moro è uno dei ‘padri’ dell’articolo 49 della Costituzione sul diritto di associarsi in partiti con metodo democratico”.

Tra riformismo e ‘occasione mancata’. “I motivi che emergono nella fase costituente – prosegue Fioroni – si ritrovano nella successiva attività politica di Moro, che si aprì a un riformismo orientato in senso sociale. Culmine di tale riformismo è il passaggio dal centrismo al centro-sinistra, che Moro guidò prima come segretario della Democrazia Cristiana e poi come Presidente del Consiglio». Questa fase, ammette il dem, “è stata spesso letta come un’occasione mancata – e in parte fu – attribuendo a Moro la responsabilità di aver frenato le proposte riformiste più avanzate. Sembra però più giusto sottolineare la grande capacità di Moro di frenare le spinte più conservatrici (Sifar) e di guidare la Democrazia cristiana a una prospettiva nuova”.

Un nuovo modo di fare politica, l’approdo al ministero degli Esteri e il ruolo dell’Onu. “Moro – ricorda l’ex ministro – fu quasi ininterrottamente ministro degli Esteri dall’agosto 1969 al novembre 1974. Anche questa pagina non è affatto secondaria. Il suo approcci, infatti, traduceva in concreta azione politica il patrimonio proprio della cultura cattolica, in particolare in ordine al tema della pace e della solidarietà tra i popoli”. Senza mettere in discussione il quadro atlantico, “valorizzò il ruolo dell’Italia nella dimensione europea e nel quadro della politica di distensione, cercando di potenziare il ruolo dell’Onu e interpretando i rapporti internazionali in termini di rapporti tra popoli”.

Insomma, a detta di Fioroni “confrontandosi con le grandi questioni della politica internazionale, Moro sviluppò una riflessione complessiva sulle trasformazioni degli anni ’70 ed elaborò una nuova prospettiva per una democrazia italiana che gli appariva gravemente minacciata”. Più di ogni altro politico contemporaneo, questa la tesi del deputato Pd, “il presidente della Democrazia Cristiana colse la gravità di una crisi che, nella sua visione, era innanzi tutto morale e che investiva la società, frammentata e produttrice di violenza diffusa, distruggendo l’autorevolezza dello Stato e dei soggetti collettivi, primi fra tutti i partiti”.

Cosa ci fu alla base del compromesso storico? “Nella sua visione l’incontro tra democristiani e comunisti, che non doveva necessariamente escludere altre forze politiche, non era un ‘compromesso storico’ inteso come risposta emergenziale a una crisi e tanto meno una forma di arroccamento consociativo stabile”. Era un processo più profondo, che implicava “una trasformazione dei partiti che avrebbe consentito di superare i vincoli internazionali rivolti contro il Partito comunista e di dare ai partiti un nuovo ruolo”.

I cardini di questo ragionamento erano essenzialmente due: “In primo luogo – dice Fioroni – la necessità che la DC si liberasse dell’idea di essere partito di governo senza alternative e conseguentemente eliminasse gli aspetti deteriori dell’identificazione con strutture statali e burocratiche che andavano profondamente riformate”.

In secondo ordine, “a Moro appariva necessario che la piena legittimazione del PCI attraverso il suo ingresso nella maggioranza non fosse una confusa alleanza strategica ma piuttosto la premessa per una radicale trasformazione di quel partito, che rendesse obsoleto il vincolo esterno dato dal suo rapporto con l’Unione sovietica”. Poi, però, venne il fatidico giorno. “Il rapimento e l’assassinio di Moro – ricorda il deputato – segnarono una discontinuità irreversibile, perché privarono la politica italiana del più avanzato progetto di rifondazione del sistema politico e crearono nel Paese un autentico trauma. Con la morte di Moro finì la fase della Repubblica fondata sulla Costituente ed è iniziato un lungo periodo di transizione che stiamo vivendo ancora oggi”.

I 55 giorni intercorsi tra il rapimento e il ritrovamento del cadavere di Moro hanno “messo in luce i germi di autodistruzione presenti nella società italiana e, soprattutto, hanno lasciato una scia di dubbi sull’azione di istituzioni e apparati, sulle responsabilità, sulle connivenze, sulla dimensione internazionale della vicenda Moro. La verità giudiziaria affermatasi tra gli anni ’80 e i primi anni ’90 appare ancora parziale, perché fondata prevalentemente sulle incomplete ammissioni di alcuni dei responsabili materiali dell’omicidio”.

Negli anni, altri particolari sono emersi, anche grazie alla commissione parlamentare che proprio Fioroni ha presieduto. Tuttavia, la notte della Repubblica, è ancora avvolta nel mistero. Ed è proprio per questo che, quarantatré anni dopo, occorre tenere viva la memoria.

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