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Myanmar, dal Papa slancio all’azione. L’appello di Sensi (Pd)

Le proteste in Myanmar non si fermano, e mentre papa Francesco fa un appello per la pace e per il dialogo, serve una scossa internazionale che parta da Usa, Ue, e Onu. Conversazione con Filippo Sensi (Pd)

“I comunicati di condanna stanno a zero, purtroppo”, commenta Filippo Sensi, deputato del Partito democratico che parla con Formiche.net di Myanmar, dove la giunta militare, dopo aver incarcerato la leadership del partito che aveva vinto le ultime elezioni, procede con una repressione brutale contro chi manifesta la propria opposizione.

“Per ripristinare un percorso democratico in Myanmar ci vorrebbe una spinta poderosa, a cominciare dagli Stati Uniti, in particolare alle Nazioni Unite”, spiega Sensi: “Oppure una iniziativa multilaterale forte, di fronte ad una escalation di violenze davvero preoccupante”.

“Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar, stendo le braccia e dico ‘cessi la violenza’. Anche io stendo le mie braccia e dico ‘prevalga il dialogo’. Il sangue non risolve niente: prevalga il dialogo!”. Così Papa Francesco questa mattina, al termine dell’udienza generale del mercoledì, ha ricordato il gesto di una suora — ferma, in strada, in ginocchio davanti ai militari armi spianate — diventato nei giorni scorsi uno dei simboli di quanto sta accadendo in Birmania. Dal Vaticano un appello internazionale con lo sguardo puntato a Oriente.

“Mi auguro che l’accorato monito del Papa trovi eco non solo nelle coscienze, ma nelle iniziative diplomatiche di tutti i player, Italia compresa in ambito europeo. Storie che vediamo anche nel cuore dell’Unione con quanto accade in Bielorussia, un’altra strage di diritti e di libertà”, aggiunge Sensi, che ha più volte sollevato l’urgenza di certe situazioni, problematiche enormi che squarciano le questioni dei diritti. Aspetti che la nuova amministrazione statunitense ha tra l’altro individuato come terreno comune di snodo delle relazioni transatlantiche.

“Stiamo assistendo a una vera escalation della violenza dei militari. Solo ieri a Yangon e nei dintorni abbiamo contato 189 morti, come riferisce la rete di informazione capillare Myanmar Now, cui fanno capo molti attivisti”, ha raccontato all’Agenzia Fides una fonte dalla comunità cattolica di Yangon, che teme che il bilancio (non ufficiale, ma difficile capire cosa lo sia in mezzo al soffocamento delle informazioni imposto dalla giunta armata) sia pure peggiore. L’esercito ha aperto il fuoco contro i manifestanti, che continuano a radunarsi per protestare da oltre un mese, dopo il ritorno dei militari.

Domenica 14 marzo la giunta militare ha imposto la legge marziale in alcune aree del Paese, dopo che la Cina aveva denunciato che i propri interessi (fabbriche e dipendenti cinesi) erano stati attaccati dai manifestanti. La sovrapposizione del dossier con affari di carattere internazionale, nel caso il ruolo giocato dalla Cina, è un aggravante. Sebbene la situazione abbia ragioni interne su cui pesano la questione etnico-religiosa, la pandemia da Covid-19, le disuguaglianze dilaganti vengono inasprite e vanno a colpire le fasce più fragili della popolazione che, nel Paese, sono rappresentate proprio dai gruppi etnici minoritari — come aveva spiegato su queste colonne Giulia Sciorati (Ispi).

Se l’Europa e gli Stati Uniti compongono il fronte occidentale che cerca la difesa dei diritti e della democrazia come vettore strategico, la Cina punta alla ricomposizione di un equilibrio accettando ampi compromessi pur di recuperare una stabilità in un’area di forte interesse. Al di là dell’aspetto più ideologico, per la Cina il Myanmar ha una dimensione geopolitica. È così dall’Ottocento, anno in cui fu scoperta la linea di collegamento all’India, oltre che lo sbocco nel Golfo del Bengala, ossia nell’Oceano Indiano. Funzione geostrategica molto importante per il Partito/Stato che deve fronteggiare il blocco delle democrazie nell’Indo Pacifico.



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