È del tutto peregrino immaginare, casomai dopo un interregno di un Bonaccini, un rientro a gran voce nel Pd di Renzi con posizione da leader? La rubrica di Corrado Ocone
Spesso, quando tutto comincia a girare in senso contrario, la ruota non si ferma. E credo sia questa l’immagine più efficace per descrivere le convulsioni del Pd e lo stato d’animo del suo segretario. Nicola Zingaretti, consigliato si dice da Goffredo Bettini (leggi qui l’intervista), è colui che politicamente esce con le ossa più rotte degli altri dalle ultime vicende. E non inganni il numero dei ministeri, fra l’altro di peso, che i dem hanno portato a casa. E come poi spesso pure accade, la politica sa essere paradossale.
Proprio Giuseppe Conte, infatti, che il Pd ha sorretto per un anno, che ha pedissequamente seguito in ogni sua scelta (anche le più discutibili e quelle che all’interno del partito creavano più malumore), fino alle ultime che rincorrevano inesistenti “responsabili” da sostituire alle truppe renziane; proprio l’avvocato prestato alla politica e poi divenuto politico egli stesso, proprio lui è oggi colui che minaccia un consistente travaso di voti verso un sempre più probabile Movimento a Cinque Stelle con lui alla guida. E a cui paradossalmente il Pd minaccia di dare un po’ di quella linfa vitale che stava precipitosamente perdendo. Per non parlare del paradosso che vuole il partito più europeista di tutti (insieme ovviamente a quello minuscolo della Bonino), l’architrave anzi dell’accordo italiano con la commissione di Ursula von der Leyen, trovarsi accanto in maggioranza quella Lega che proprio per presunto antieuropeismo intendeva escludere non solo dal consesso politico ma anche da quello civile: “con Salvini mai!”. Ma anche: “o Conte o elezioni” fino all’ultimo, e ritrovarsi poi senza Conte e senza elezioni.
Ma inutile nascondersi dietro un dito: il problema del Pd è, più che per le altre forze politiche, quello dell’identità. Ed è qui che si giocherà il suo futuro, e quello del suo leader. Insistere come ancora Zingaretti fa sull’alleanza strategica con i Cinque Stelle, e anzi muoversi decisamente in questo senso (vedi l’ingresso in giunta dei grillini alla regione Lazio), a parte le su indicate controindicazioni, porta ad un risultato ben preciso: la creazione di un blocco di sinistra caratterizzato da statalismo e giustizialismo, con una buona dose di populismo soft e istituzionalizzato ma pur sempre tale. Quanto di più lontano possibile non solo dallo “stile Draghi” (che stride quanto nulla con le smargiassate tipo il casco da astronauta di Beppe Grillo!), ma anche dall’originario progetto del partito che era riformista, liberal, tendente al centro e con un occhio di riguardo per i ceti produttivi.
Ed è su questo punto che Zingaretti entra ora in rotta di collisione, più o meno governale, contrasto con la Base riformista, la corrente di minoranza interna che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti, gli “ex renziani” come vengono chiamati. E in verità è proprio Renzi, ad avviso di chi scrive, il “convitato di pietra” dei travagli piddini. Perché è sicuramente vero che non solo il progetto di Italia Viva non ha decollato in questi mesi, non almeno come lui avrebbe voluto, ma, dopo la crisi del secondo governo Conte da lui propiziata, l’ex presidente del Consiglio si trova non solo ininfluente nel quadro politico ma anche minacciato ancora più nei suoi progetti futuri da “centrista”. Un’area che ormai è lambita minacciosamente anche da una Lega in qualche modo “berlusconizzatasi” (e forse persino in procinto di entrare nel Partito popolare europeo). È del tutto peregrino immaginare, casomai dopo un interregno di un Bonaccini, un rientro a gran voce nel Pd di Renzi con posizione da leader?