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Se Conte fa il leader dei 5 Stelle, cosa resta dell’alleanza con il Pd? Parla Bettini

Il co-fondatore del Pd e più grande sostenitore dell’alleanza con i Cinque Stelle ammette: se Conte fa il leader M5S non può fare il federatore. Raggi? Basta, a Roma serve un nostro nome ma su Zingaretti non dico nulla. Renzi? Non può più fare un’opa sul partito

Non c’è lutto nella voce serafica di Goffredo Bettini. Eppure oggi il “padre” per eccellenza dell’alleanza fra Pd e Movimento Cinque Stelle, volto storico e cofondatore del partito guidato da Nicola Zingaretti, fa i conti con una perdita. Giuseppe Conte ha posato i panni del premier e sta per indossare quelli del leader del Movimento. In quella veste non può più essere il nocchiero del “campo progressista” che Bettini, e altri insieme a lui nel partito, auspicavano da tempo.

Bettini, lei è considerato il padre dell’alleanza fra Pd e Cinque Stelle. Ora che Conte è pronto a tesserarsi perde un figlio?

Attenzione, Conte non ha detto “vengo a fare il leader”. Ha dato la sua disponibilità, e ha detto che presenterà un progetto innovativo. Se su questo si troverà una quadra, potranno iniziare un percorso comune.

L’ex premier commette un errore?

Io penso che Conte si stia comportando con molta saggezza. Il Movimento Cinque Stelle sta cambiando radicalmente. Penso a Luigi Di Maio che ora rivendica una impostazione europeista, moderata, liberale. Dobbiamo aiutarlo a muovere in questa direzione.

Delle due l’una. O Conte è il federatore del campo progressista, o è il leader del Movimento.

Questo è chiaro. Lui stesso sa che, una volta presa questa decisione, non potrà presentarsi come federatore. Il Pd da parte sua deve lavorare alla sua rifondazione, alla costruzione di un profilo più chiaro e appetibile, e al tempo stesso guardare con favore all’evoluzione di un alleato difficile ma in cui ho personalmente sempre creduto.

Non c’è il rischio che i Cinque Stelle vi rubino elettori?

No, la competizione non è un male se fatta da forze che lavorano per dare una prospettiva comune al Paese. Il Pd ha una prateria da riconquistare. Penso agli astenuti, a chi ha votato a destra venendo da sinistra, a una rappresentanza popolare che si è persa in questi anni. È lì che deve guardare, più che a un centro moderato dai contorni elettorali sbiaditi.

Cosa resta dell’alleanza giallorossa?

Il progetto politico va reinventato. Non possiamo fermarci alla vecchia impostazione dell’alleanza con i Cinque Stelle per governare un Paese in uno stato di emergenza come con il Conte due. Dobbiamo definire due identità distinte e recuperare la nostra fisionomia in modo nitido.

Se Conte non sarà federatore, chi può farlo?

Francamente non glielo so dire. Molto dipenderà dalla forza che ogni partito avrà al momento delle elezioni.

Ora i Cinque Stelle vogliono entrare nei Socialisti europei, la famiglia del Pd a Bruxelles.

Tutto ciò che rafforza la famiglia dei socialisti europei è una buona notizia. Come ha detto Smeriglio, deve essere un processo lento, dettato da giudizio e prudenza, evitando qualsiasi velleità trasformistica. Ricordo che anche noi fummo visti con diffidenza all’inizio. E il gruppo per accettarci dovette aggiungere la parola “democratico” al nome.

Il tema dell’alleanza si riproporrà alle comunali di Roma. Sulla Raggi calate il sipario?

Come ho sempre detto, non ho alcuna antipatia personale o pregiudizio verso la Raggi. Ma i fatti parlano: il risultato di questa amministrazione non è positivo, non possiamo appoggiare la sindaca uscente. Perfino una parte dei suoi consiglieri ha marcato le distanze. Dobbiamo trovare un nostro candidato.

Magari lo stesso Zingaretti…

Non voglio dire niente. Altrimenti qualsiasi cosa decida, e lui decide in assoluta autonomia, mi verrà addebitata.

Bettini, parliamo di Pd. Il clima è da resa dei conti.

Non c’è dubbio, sono emerse critiche, anche dure. In particolare sulla nostra esperienza di governo con il Conte bis e la scelta di un’alleanza politica con i Cinque Stelle.

Politica o strutturale?

Politica, non ho mai parlato di altro. Un’alleanza, va ricordato, che è nata da un’esigenza precisa. Cioè evitare elezioni catastrofiche per il campo democratico che avrebbero gettato il Paese in un’avventura pericolosa.

Orlando dice che i renziani nel Pd logorano Zingaretti. È così?

È sotto gli occhi di tutti che c’è stato un logorio del gruppo dirigente, che pure ha sempre dato spazio alla minoranza, anche con incarichi. L’assemblea nazionale è il posto giusto per affrontare apertamente queste divergenze e indicare una strada comune.

Prima va risolta una questione Renzi interna al partito, mi sembra…

Renzi non ha più la forza di lanciare un’opa sul Pd, non è realistico. Ha il problema di dare un senso alla presenza di Italia Viva. Da quando è nata mi sembra si sia data l’obiettivo di diventare il “Parti Macron”. Ma in questi mesi non è riuscito a mettere insieme le forze liberali e riformiste come Più Europa e Azione di Calenda.

Da dove si riparte?

Io penso che il Pd abbia un duplice compito. Definire meglio la sua identità, riscoprire le sue radici, e insieme immaginare un campo più largo. Nel 2018 il Pd di Renzi ha sofferto l’assenza di una prospettiva politica. Gli italiani non votano un partito che non ha una proposta, né una visione maggioritaria per battere la destra.

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