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Perché la Via della Seta (non) è andata in porto. L’analisi di Geraci

Di Michele Geraci

Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Giovannini fa bene a citare il ruolo dei nostri porti nella Via della Seta. Quel piano di investimenti è stato bloccato, più che da un sovranismo euro-atlantico, dal sovranismo dei Paesi nord-europei: un container in più a Trieste è un container in meno a Rotterdam. La versione di Michele Geraci, professore alla University of Nottingham Ningbo China e già Sottosegretario al Mise

Finalmente, dopo quasi due anni, il governo italiano dimostra di avere visione e comprendere bene le dinamiche dello sviluppo delle infrastrutture. Il ministro Enrico Giovannini, infatti, come riportato da Formiche.net, cita il ruolo importante che i nostri porti possono avere nella Via della Seta, il grande progetto di infrastrutture promosso dalla Cina ed al qual l’Italia ha aderito esattamente due anni fa, nel marzo 2019 durante la visita di Xi Jinping a Roma e a Palermo.

In questi due anni, l’Italia e in particolare il sottoscritto ed il ministro Luigi Di Maio, abbiamo subito critiche da varie parti per aver aderito a questa iniziativa. Lo trovo ingiusto, mi è spiaciuto molto vederci attaccati senza merito, specularmente e solo per convenienza politica e non con riflessioni a vantaggio del nostro Paese. Alcune di tali critiche, pur non condivisibili, avevano comunque una loro logica, altre invece rispondevano, temo, ad interessi di partito.

Al primo gruppo appartengono i dubbi sollevati dai nostri amici europei, tedeschi e olandesi spalleggiati dall’establishment di Bruxelles che hanno, furbi, immediatamente compreso che una crescita del ruolo dei porti del Mediterraneo, e quindi anche di quelli italiani, nel gestire il traffico di merci provenienti dalla Cina e dall’Asia avrebbe ridotto l’importanza relativa dei loro porti, nel Mar del Nord, da Rotterdam, Anversa fino all’hub di Duisburg in Germania.

Quindi, loro che sanno ben curare i loro interessi nazionali, hanno interpretato l’adesione dell’Italia alla Via della Seta come gesto concorrenziale. Ed hanno ragione: il motivo per cui io mi sono personalmente impegnato nel dossier era proprio cercare di far convergere più traffico sui nostri porti, come era mio dovere fare. Il gioco è, ceteris paribus, a somma zero: un container in più a Trieste equivale a un container in meno a Rotterdam.

Credo sia intellettualmente onesto ricordare che all’interno dell’Unione siamo partner per temi legati a politiche commerciali, ma concorrenti per temi legati alla promozione. Capisco anche le critiche dei nostri alleati americani, impegnati in una disputa tout-court contro la Cina e commercialmente anche contro la UE, non dimentichiamoci che anche noi godiamo di un surplus commerciale che non viene ben digerito a Washington.

Gli Usa hanno visto nell’adesione dell’Italia una possibile rottura di un fronte comune occidentale contro la Cina. Un malinteso che ho avuto modo di chiarire durante i miei vari viaggi a Washington, spiegando agli amici americani, non senza difficoltà, che non c’è stata nessuna rottura di fronte comune.  Anzi noi, Italia, come loro, e come tutti in Europa vogliamo dalla Cina esattamente le stesse cose: fare più affari e avere maggior accesso al loro mercato in modo paritario.

La comunanza di obiettivi non è solo una mia congettura, ma è dimostrata dai fatti: così come l’Italia ha firmato l’MoU per la Via della Seta, lo ha fatto anche il Lussemburgo, Paese fondatore Ue, ed altre 13 nazioni europee. Anche l’Unione Europea ha firmato il suo MoU sugli Investimenti (CAI) e gli Stati Uniti stessi hanno firmato il loro accordo di Fase 1, senza che nessuno, ovviamente, mettesse in dubbio “l’Atlantismo” degli Usa solo perché hanno, giustamente, portato avanti i loro accordi commerciali senza concordarli prima con l’Europa, anzi creando il rischio di trade-diversion che danneggia proprio l’Europa. Ma ci passiamo sopra.

Un po’ meno ovvie, e non compatibili con gli interessi delle nostre aziende esportatrici sono state invece le aspre dichiarazioni dell’ex sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto che ha definito “sciagurato” e “fallimento completo” l’accordo firmato dall’Italia. Sono dichiarazioni non proprio diplomatiche, e ancora più curiose essendo egli stesso responsabile del commercio estero e a me succeduto. Eventuali “fallimenti” degli ultimi due anni sembrano, quindi, più un’auto-critica al proprio operato.

Un modo di esternare forse guidato da obiettivi di politica interna, ma poco utili alla nostra economia in crisi che galleggia solo grazie alla crescita dell’export. Ma, in modo bipartisan e per salvaguardare le nostre aziende, in questi mesi io stesso, in risposta alle domande di interlocutori cinesi dal tono “Ma voi, in Italia, in buona sostanza, volete o non volete fare affari con noi”, sono addirittura intervenuto giustificando le parole dell’amico Scalfarotto come “roba di politica interna” buttando acqua sul fuoco.

 

La nuova Via della Seta in Europa

È stessa giustificazione di politica interna ho usato anche per spiegare l’atteggiamento critico di alcuni membri dell’opposizione (Lega e FdI) che da buoni sovranisti hanno sempre sollevato dubbi sull’opportunità di vendere i nostri porti. Anche qua, si verifica un conflitto semantico tra narrazione e realtà: il tema della cessione dei nostri asset strategici è giustificata, ancor più in tempo di pandemia dove la supply chain internazionale può subire ritardi o blocchi.

Forse pochi ricordano che sono stato promotore di un piano di screening da investimenti predatori molto più ferreo della versione annacquata proposta dall’UE e nella mia proposta di Recovery Plan e quella di salvataggio Alitalia spingo per un ruolo sempre più importante dello stato a protezione di certi settori industriali. Ma la giusta preoccupazione delle “destre” viene mitigata da due fattori: in primis, i porti non sono asset che si possono fisicamente trasferire altrove, così come può avvenire per una fabbrica su cui avviene off-shoring.

In secondo luogo, i nostri porti, per legge, non possono essere venduti a nessuno. Quindi la cessione di quote di capitale è una preoccupazione che deve focalizzarsi su altri settori produttivi, non certo sui porti. Chi, come noi che ci abbiam lavorato, conosce i dossier sui porti, sa bene che, in assenza di una qualsiasi possibile vendita, si cercava semplicemente di adottare una strategia che posizionasse Trieste, Genova ed altri porti come terminali del traffico merci provenienti dalla Cina.

Un aumento del traffico container significa più lavoro sul territorio, quindi aumento del Pil locale, quindi maggiori ricavi, maggiori flussi di cassa e possibili maggiori investimenti per aumentare capacità produttiva, innescando quindi un ciclo positivo di sviluppo. Rassicuro anche gli amici delle Lega e di FdI che le merci dalla Cina arrivano comunque in Europa indipendentemente dalle nostre desiderate protezioniste; la Cina ha infatti già investito in tutti i maggiori porti del mediterraneo, dal Marocco alla Spagna, Francia, Germania, lo stesso porto di Rotterdam è per il 10% in gestione alla Cina, fino a girare verso est passando per la Turchia, Israele, ripeto Israele, e Grecia, per un totale di circa 15mn di TEU, circa il 10% della capacità portuale europea.

Per mettere le cose in prospettiva, ricordiamo che a Vado, Cosco gestisce circa 120mila TEU, cioè meno dell’1% di quel che la Cina ha già in Europa. Quindi, i fatti sono che del totale investimenti cinesi in porti europei, il 99% è stato già fatto negli altri paesi (quelli che ci criticano) e noi, come sempre, folkloristicamente discutiamo di chiudere le stalle quando i buoi sono scappati.

La scelta che ci resta è chiara: o continuare a fare arrivare i container dall’Asia nei porti degli altri, o prenderci anche noi una fetta del business e dare lavoro alle nostre aziende ed ai nostri giovani e meno giovani, con il plus di essere noi ad effettuare le verifiche delle merci all’ingresso, piuttosto che lasciarle fare agli olandesi a Rotterdam, porto che conosco bene e dove so che solo l’1% dei container viene controllato.

Praticamente, il vero “sovranista”, che fa gli interessi del Paese, che si preoccupa della qualità delle merci in arrivo dalla Cina e dall’Asia, invece che opporsi, o peggio ignorare, dovrebbe spingere per una ruolo più proattivo dell’Italia e dei nostri porti sulla Via della Seta, come suggerisce Giovannini un’autorità che dimostra di guardare anche oltre, citando anche la sfida che l’Artico si preparare a sferrare sul mediterraneo, argomento di cui ho parlato già anni fa, e su cui tornerò.

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