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Perché Zingaretti non farà marcia indietro

zingaretti marcia indietro

Il segretario del Pd che non vuole fare da bersaglio, la preoccupazione per il futuro del partito, la situazione delle alleanze a Roma e nel Lazio, il contesto mutato dal governo Conte a quello Draghi, il rinnovamento per anticipare il futuro. L’analisi di Antonello Di Mario

Nicola Zingaretti si è dimesso e non tornerà indietro. Il segretario del Pd è dimissionario e il dibattito che caratterizzerà l’assemblea del partito, stabilita per i giorni del 13 e 14 marzo, non lo farà recedere dalle sue posizioni. Un’anticipazione di quanto ascolterà in questi due giorni a venire è stata possibile coglierla già da ieri.

Dopo aver letto il suo “post” sulla sua pagina di Facebook, la quasi totalità degli esponenti del Pd e tantissime voci dalle realtà locali gli hanno chiesto di rimanere al suo posto. Anche gran parte degli oppositori interni si è espressa in tal modo. Ma fino a poco prima di quel cinguettio, le critiche su come aveva gestito il partito sono cresciute di giorno in giorno. Tutto è cominciato durante la crisi di governo, con la caduta del precedente premier Giuseppe Conte, il mandato esplorativo al presidente della Camera, Roberto Fico, il seguente mandato a formare l’esecutivo a Mario Draghi, che è ritornato dal Capo dello Stato, sciogliendo positivamente la riserva e formando il nuovo esecutivo.

Tutto è cominciato dopo il giuramento dei ministri e la nomina dei loro vice e sottosegretari.

Nicola Zingaretti in quel “post” del pomeriggio di ieri, tra le altre cose, aveva scritto: “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”.

Nulla da eccepire su questo “incipit”, perché la situazione descritta rispecchia la realtà esistente e percepita all’esterno. Ma Il segretario del Pd nella fase delle consultazioni di governo nella fase iniziale, con l’accordo di tutti i suoi, aveva prima puntato sul reincarico a Giuseppe Conte, per poi passare al sostegno rivolto a Mario Draghi. La fedeltà a questo schema è stata ribadita con la formazione dell’intergruppo parlamentare presso il Senato della Repubblica, alla vigilia della fiducia al governo Draghi, tra M5S, Pd, Leu. E, poi, l’intesa avvenuta presso la Regione Lazio, di cui Zingaretti è presidente, tra il Pd ed Il M5S, con la possibile entrata del movimento pentastellato in Giunta regionale con Roberta Lombardi. Quest’ultima, avversa Virginia Raggi, attuale sindaco di Roma, intenzionata a ricandidarsi alle elezioni comunali di Roma, differite dal governo al prossimo ottobre, come quelle di molte altre realtà municipali, a partire da Napoli e Torino. Insomma, un bel risiko tutto romano, che ha provocato ricadute in ambito nazionale, dal momento che Raggi ha ottenuto il sostegno di Beppe Grillo a ricandidarsi alla guida della Capitale e mentre lo stesso Grillo con i maggiorenti del M5S hanno indicato Giuseppe Conte alla leadership del movimento. I sondaggi sono stati impietosi e le prime rilevazioni hanno indicato la crescita del M5S a scapito del Pd.

Quindi è vero che un grande partito nazionale deve pensare a risolvere i problemi del Paese, ma le scelte politiche che ha compiuto fino ad ora in sede di governo ed in ambito decentrato hanno lasciato il segno. E l’azione di governo di Mario Draghi, silenziosa ed imperterrita lascia filtrare segnali in attesa dei riscontri concreti. Tante delle nomine realizzate nei primi giorni di azione esecutiva per fronteggiare la crisi emergenziale sconfessano il “modus operandi” del governo precedente.

In questo contesto il segretario del Pd non ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutte le colpe, perché le sue scelte non sono state solitarie, ma condivise. Di certo, non vuole restare ora con il cerino in mano e logorare il suo ruolo e l’immagine di buon amministratore, oltre la “leadership” partitica, cioè la figura istituzionale che rappresenta in una delle regioni più importanti del Paese e l’influenza che esercita sul futuro della Capitale d’Italia.

Ecco perché Nicola Zingaretti, molto probabilmente, non darà retta al “richiamo delle sirene”, proveniente sia da “oppositori pentiti” che da “pontieri responsabili”, perché nessuno possa continuare a nascondere le proprie responsabilità dietro la figura del segretario di partito. Lui, mai come ora, ha deciso di tirare dritto per tornare a riappropriarsi di quello che finora ha saputo far meglio: l’amministratore della Regione, dopo aver svolto bene il compito di Presidente della Provincia di Roma. Ha fatto anche il parlamentare europeo, ma Roma è Roma. In questa prospettiva, se si candidasse a fare il sindaco della Capitale d’Italia, nessuno potrebbe obiettare nulla e lui stesso avrebbe concrete possibilità di vincere le elezioni a mani basse. Lo hanno fatto Francesco Rutelli e Walter Veltroni, pur essendo leader nazionali; perché lui no?

Ma queste sono congetture che scopriremo solo vivendo.

Di certo, ha ragione il segretario del più grande partito nazionale di centrosinistra, sempre nel succitato post di ieri pomeriggio, quando afferma di non voler far più da bersaglio e la ha ancor di più quando che il Pd non può rimanere fermo, impantanato a causa di una guerriglia quotidiana”. È come se con queste dimissioni si fosse emancipato, non solo dagli avversari interni, ma anche da chi ha parlato troppo in suo nome, togliendogli spazio e continuando a fargli da nome tutelare. Un danno oggettivo, più che un sostegno politico. Insomma, una condizione in cui è giunta l’ora di affrancarsi.

Ecco, perché è molto probabile che Nicola Zingaretti non ritornerà sui propri passi. Quel che accadrà al Pd si deciderà non tanto nei giorni dell’assemblea nazionale del partito a cui tutti guardano con curiosità, ma dai giorni seguenti di metà marzo in poi. Stare fermi, come ha ribadito Zingaretti, non si può, perché la stasi ucciderebbe il Pd.

Allora, una grande forza nazionale di governo non potrà che muoversi in una logica europea, filoatlantica, di alleanza coi Paesi della Nato. Lo ha detto Mario Draghi nel suo discorso d’insediamento da presidente del Consiglio che chiedeva la fiducia delle assemblee parlamentari. Lo disse con parole simili, Alcide De Gasperi, l’uomo che si fece ascoltare in Europa, gestendo da capo del governo gli aiuti del Piano Marshall rivolti all’Italia uscita malconcia dal secondo dopoguerra. Ora il Paese non è messo bene ed ha bisogno di una grande forza, tranquilla, nazionale, moderna, riformista che unisca concretamente il centro alla sinistra in un quadro di unità nazionale. E mai come ora occorre dar prova di azioni riformatrici che trasformino i partiti del contesto attuale da così come sono a luoghi di leadership condivisa e partecipata.

Aldo Moro, che di Alcide De Gasperi aveva mutuato il principio del centro che guarda a sinistra, aveva un’idea precisa sul rinnovamento che si imponeva ai partiti della sua epoca: “Un partito – disse l’allora segretario della Dc il 2 marzo 1962 nel corso del dibattito alla Camera per l’insediamento del IV governo di Amintore Fanfani – che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere”.

L’anno seguente Aldo Moro avrebbe formato il primo governo coi socialisti dentro. Flussi e riflussi storici che dimostrano come il rinnovamento aiuti ad anticipare il tempo che verrà. Una ragione in più perché le dimissioni di Nicola Zingaretti possano aiutare il Pd ad uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato.


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