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Pietro Larizza, il riformatore che manteneva la parola data

Nelle parole di Antonello Di Mario il ricordo commosso dell’ex segretario generale della Uil scomparso questa notte

“Bisogna vivere”. Questo mi disse guardando un’antica libreria di una casa romana in cui si teneva un ricevimento privato. Una frase insolita per un uomo riservatissimo, sia in ambito privato che, per quanto possibile, in quello pubblico, ieratico e poco loquace. Una persona che teneva tutto dentro. È la prima immagine che mi sovviene di Pietro Larizza, scomparso questa notte a Latina dove era stato ricoverato il giorno prima.

Quando si aprì con me in quel modo rimasi sorpreso: aveva da poco lasciato la Guida della Uil e il secondo governo di Giuliano Amato aveva approvato il suo approdo alla presidenza del Cnel. Perché Pietro Larizza è stato tante cose nella sua vita.

Nato a Reggio Calabria il 21 luglio del 1935, impiegato presso la Cassa del Mezzogiorno, ha scalato tutti i gradini che lo hanno portato alla guida della Uil in cui è stato eletto segretario generale nel febbraio del 1992. Poi, nel giugno del 2000 l’elezione a presidente del Cnel fino a metà del 2005. Infine, il seggio che andò ad occupare presso il Senato della Repubblica solo dal 26 novembre 2007 subentrando al dimissionario Goffredo Bettini.

È stato tra gli artefici della stagione della concertazione, iniziata con il sistema della “politica dei redditi” del primo governo di Giuliano Amato e continuata con la firma del Protocollo del luglio del 1993 con il governo di Carlo Azeglio Ciampi. Per tenere i contatti con il primo, per la visione costante di testi e documenti anche durante i fine settimana, si fece sistemare un fax nella sua casa di campagna in riva al lago tra i comuni di Fondi e Terracina. E quante riunioni segrete, per depistare i giornalisti, si tennero intorno al tavolo della sua casa romana in via Adige, sia per definire al meglio quel protocollo del 1993, sia per dare concretezza alla riforma delle pensioni realizzata nel 1995 col governo di Lamberto Dini. Come si arrabbiava quando quest’ultimo lo definiva in riunioni ristrette un sindacalista moderato: “Io sono un riformista” replicava a denti stretti. O meglio, come amava a volte precisare con gli amici stretti: “Sono un riformatore, perché ormai tutti si dicono riformisti”. E concedeva uno di quei sorrisi liberatori che si potevano cogliere in una stretta di mano al socialista Amato, o nell’abbraccio nell’ascensore di Palazzo Chigi all’azionista Ciampi. Gesti profondi, misurati, quasi calmierati dal pudore perché compiuti da personaggi di altri tempi. Un tempo che purtroppo, non ritorna più, ma che abbiamo vissuto intensamente al punto che rappresenta le radici di tante generazioni ora meno giovani.

Lui che da giovane dormiva molto, aveva preso col tempo l’abitudine di addormentarsi presto la sera e di svegliarsi all’alba. I caffè a casa e subito dopo al bar di fronte all’edicola; poi il rito dei giornali che “non basta leggerli, ma è fondamentale capire tra le righe quel che pubblicano”. Inoltre, l’avversità a tutto ciò che è scontato, ma il bisogno psicologico dei comportamenti abitudinari per cercare di tenere sotto controllo quel che gli girava intorno.

Sicuramente è stato un uomo di potere, ma di un genere antico, di quelli per cui si ha a che fare con un’arte nobile che va servita senza tentennamenti, con un’azione che non si rende evidente, ma che produce effetti precisi. Insomma, il potere chi ce l’ha non ha bisogno di mostrarlo, ma sono i fatti a farne ipotizzare l’origine. E lui, una cosa è certa, ha esercitato questa dote con coraggio e senza paure, salvando la Uil in una fase politica in cui ha rischiato di scomparire, all’indomani della stagione di “Mani pulite”, dove il sistema dei partiti ha pagato un prezzo altissimo, ma dove anche taluni spazi di rappresentanza sindacale hanno corso una seria possibilità di estinguersi. “O ci sarà un solo sindacato confederale, o continueranno ad essercene tre. Mai Uno!”. E subito dopo, Larizza aggiungeva con quel sorriso a mezza bocca: “La Uil c’è. È al passo con le altre confederazioni. Anzi, un passo avanti”.

Delle cose che amava della vita c’erano la Calabria, la musica, il mare, la casa in fondo alla strada nel borgo di campagna, la sua colonia di cani e gatti, la frequentazione assidua negli ultimi tempi con la moglie Maria, i suoi silenzi. In una piccola chiesa nei pressi della casa dei fine settimana si terrà in forma privatissima una cerimonia funebre; poi il feretro verrà portato a Reggio Calabria per essere tumulato nella tomba di famiglia. Lui non avrebbe voluto che fossero rese pubbliche tutte queste indicazioni logistiche. Avrebbe preferito che lo si immaginasse in partenza per un giro in barca, magari verso la vicina Ponza, meta di tante ferie agostane.

Una volta sul molo dell’isola pontina lo incontrai mentre stavo per prendere il largo con degli amici su una piccola imbarcazione. Guardava l’orizzonte e mi disse: “Lascia perdere, il mare non è buono; dovrai tornare”. Io uscii lo stesso, ma dovetti rientrare subito dopo in porto. Ancora una volta aveva avuto ragione lui. Sapeva come comportarsi in determinate sensazioni. E a chi teneva con quel sorriso particolare dava un poco di sé, mantenendo sempre la parola data. E ora più che mai, bisogna vivere.


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