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Urge una nuova visione di politica industriale. Scrive Zecchini

Francia e Germania hanno aggiornato le loro strategie di politica industriale, muovendosi nella direzione di una più ampia politica industriale europea. L’Italia, dal canto suo, non ha svolto un ruolo di proposizione e finirà con l’andare a rimorchio dell’iniziativa franco-tedesca, eppure dovrebbe avere una più lungimirante visione per far evolvere il sistema verso nuovi assetti che consentano il ritorno alla perduta prosperità. L’analisi di Salvatore Zecchini

Da diversi mesi si parla molto del Pnrr e del modo di impiegare i fondi resi disponibili dall’Ue e soprattutto dalla politica monetaria ultra-accomodante della Bce, ma si è detto poco sull’opportunità di riportare le diverse linee d’intervento entro un quadro coerente e sinergico. Gli interventi per la digitalizzazione del Paese, l’economia verde, l’innovazione tecnologica, la rete a fibra ottica, il 5G, le riforme della giustizia, la tassazione, la pubblica amministrazione, la scuola e le altre istituzioni, tutti influiscono sulla capacità del Paese di uscire dalla stagnazione. In assenza di una loro coerente integrazione e di sinergie sortirebbero scarsi effetti e non sarebbero in grado di superare le forti resistenze al cambiamento, come avvenuto nel passato. In breve, questi interventi dovrebbero essere ricomposti in quella che la più aggiornata analisi economica definisce una visione di politica “industriale”.

Una politica che non è più intesa alla vecchia maniera di un programma di aiuti pubblici per l’industria, o per mirare a convogliare risorse verso determinati progetti e settori, o per estendere la mano protettiva dello Stato nel mondo delle imprese, distorcendo così una sana concorrenza ad armi pari tra imprese e scaricando oneri crescenti sulla finanza pubblica. Né viene intesa come si è visto finora come un takeover da parte dello Stato di grandi imprese che non riescono più a stare con le loro gambe sul mercato nel tentativo di evitare l’inevitabile scomparsa di posti di lavoro e la riallocazione del capitale umano verso impieghi produttivi.

Nella moderna concezione, quale è quella recentemente propugnata da due noti economisti, Aiginger e Rodrik, la politica industriale va oltre l’industria per abbracciare il settore dei servizi, le condizioni di contesto del fare impresa e le riforme di sistema. Mira a creare le condizioni per una proficua collaborazione tra il mondo delle imprese e il soggetto pubblico per facilitare la transizione verso i nuovi assetti dell’economia e del lavoro sotto la spinta dello sconvolgente avanzamento tecnologico. Vuole integrare le diverse politiche settoriali in un approccio di compatibilità, come ad esempio, tra politiche della concorrenza e quelle di promozione degli investimenti in alcune attività dalle prospettive di grande espansione su scala mondiale. Supera la tradizionale limitazione del suo intervento alla semplice liberalizzazione dei mercati, qual che sia il loro grado di concorrenza, per assumere un atteggiamento proattivo volto a facilitare la trasformazione del sistema economico e raggiugere più alti livelli di produttività e competitività.

Questo approccio, che integra più fattori, non è condiviso da chi si oppone a qualsiasi politica industriale, anche se nella blanda forma di indirizzo generale, appellandosi alle forze di mercato e ai suoi meccanismi liberi da vincoli come la soluzione migliore per i problemi dello sviluppo. Ma i mercati raramente vedono i loro operatori competere a parità di condizioni di contesto, perché spesso godono di supporti esterni che alterano un’equa concorrenza. Inoltre, sono esposti a distorsioni, stentano a riequilibrarsi dopo uno shock generando intollerabili costi sociali, e presentano incompletezze ed inefficienze che richiedono interventi correttivi dall’esterno.

Il bisogno di un intervento di politica industriale intesa in senso ampio si è, invece, rimposto all’attenzione dei governi e dell’Ue dall’inizio dello scorso decennio di fronte alla bassa crescita dell’economia europea e ha trovato applicazione nei maggiori Paesi europei e da parte della Commissione europea. Questa ha tracciato alcune linee di intervento che vanno oltre le solite politiche della concorrenza e di settore per fissare un insieme di obiettivi da perseguire insieme ai Paesi membri, disegnare appropriati strumenti per perseguirli e programmare le necessarie risorse finanziarie. In questa prospettiva sono stati lanciati diversi programmi da Agenda 2010 fino alla più recente Nuova Strategia Industriale per l’Europa del marzo 2020. Con questa Strategia si vuole non solo facilitare l’adattamento alle nuove correnti tecnologiche, ma avere l’ambizione di accelerare la trasformazione industriale e assumere un ruolo di orientamento per investitori, imprenditori ed innovatori in collaborazione con i governi e le parti interessate.

In particolare, si mira a promuovere l’imprenditoria, il miglioramento e l’adeguamento delle competenze del lavoro alle nuove esigenze tecnologiche, la transizione al digitale, l’impiego di fonti energetiche non inquinanti, la ricerca ed innovazione in alcuni progetti di punta, lo sviluppo delle nuove tecnologie abilitanti, le infrastrutture digitali, la difesa dalla concorrenza sleale (fair trade), l’economia circolare, la collaborazione tra ricerca ed industria, e il finanziamento della R&I. Tra gli strumenti messi in campo si includono le alleanze industriali su specifici programmi d’innovazione avanzata, gli IPCEI, (ad es., su batterie, microelettronica, idrogeno verde, materie plastiche), l’impiego di strumenti disegnati ad hoc, l’uso della regolamentazione, la definizione di standard, l’unione dei mercati dei capitali, la carbon tax e i controlli sull’acquisizione di imprese da parte di stranieri.

La politica dell’Ue si salda con quelle nazionali. La Germania ha definito alla fine del 2019 la sua Strategia di politica industriale nella prospettiva del 2030, affermando che è compito dei governanti creare le condizioni che permettano alle imprese di massimizzare la loro competitività e competere su scala mondiale in parità con i concorrenti. La sua strategia poggia su tre pilastri: il miglioramento delle condizioni per le attività imprenditoriali, lo sviluppo di nuove tecnologie attraverso la mobilitazione del capitale privato, e la conservazione della sovranità sulle loro tecnologie evitando la perdita di competenze e mantenendo autodeterminazione nei settori tecnologici chiave. La Strategia coinvolge molti campi, dalla tassazione al mercato del lavoro, la finanza, le infrastrutture, la burocrazia, l’energia, la concorrenza e un’azione coerente al livello delle politiche dell’Ue.

La Francia ha integrato il suo PNRR nell’ambito del suo piano di politica industriale, il Plan Relance del 3 settembre scorso, che si muove lungo linee analoghe a quelle del piano tedesco, abbracciando tuttavia campi più estesi. Si includono, infatti, i temi della coesione sociale, la transizione agricola, la pesca, i porti, la cultura, la sanità, il rinnovamento urbano. L’aspetto cruciale del piano sta sia nella massa di finanziamenti che si vuole mobilitare, 100 miliardi attingendo anche ai fondi dell’Ue, sia nell’obiettivo che si è fissato. Si vuole investire nei settori più trainanti nel creare l’economia e il lavoro del domani, e non impegnare gli aiuti nei settori che non potranno più operare come prima a causa delle grandi trasformazioni in corso.

Entrambi i Paesi sono consapevoli che l’Ue deve cooperare in questo approccio e a tal fine hanno presentato due settimane fa un aggiornamento di quella che a loro avviso dovrebbe essere la strategia di politica industriale europea. In questo documento, definito per cautela un non-paper, oltre a richiamare obiettivi già fatti propri dalla Commissione nelle sue direttive per i Pnrr, si introducono nuovi interventi di grande portata. Tra questi si propone di rivedere le regole sugli aiuti di stato e costituire un nuovo strumento per sovvenzionare le spese operative nelle produzioni innovative, assegnare alle commesse pubbliche il ruolo di apripista per lo sviluppo di prodotti innovativi per la sostenibilità e l’economia circolare, sostenere nuove alleanze industriali ad es. per i biocarburanti per l’aviazione, rendere accessibili all’esterno i dati digitali sviluppati dalle imprese superando le chiusure attuali, e definire standard nel campo dell’Intelligenza Artificiale.

Per rafforzare la sua sovranità industriale l’Europa dovrebbe perseguire un’agenda più ambiziosa nei negoziati commerciali e rafforzare gli strumenti per contrastare le pratiche distorsive dei concorrenti stranieri. Nei negoziati internazionali si chiede un’effettiva reciprocità di concessioni tra le parti e una migliore applicazione delle regole quadro per vagliare gli investimenti degli stranieri nelle imprese. La parità di condizioni nella concorrenza di mercato viene enfatizzata sia sollecitando a rimuovere le rimanenti barriere all’interno del Mercato Unico, sia negli scambi con Paesi terzi. L’attenzione non si ferma soltanto sugli indirizzi di politica industriale, ma affronta anche il tema degli strumenti per gestirla. Si invoca un più stretto coordinamento all’interno della Commissione Ue nella regolamentazione e negli investimenti in rapporto alle priorità della transizione digitale e di quella “verde”. Nell’attuazione della strategia si richiede una più stretta valutazione, che si basi sulla definizione di indicatori di risultato da raggiungere (performance indicators) e proceda a fissare i traguardi intermedi e quelli finali.

Senza dubbio, alla base di queste proposte vi sono un disegno ben definito di politica industriale di ampio respiro e un programma di azione, che dovrebbero improntare gli interventi dell’Ue. L’Italia, dal canto suo, non ha svolto un ruolo di proposizione e finirà con l’andare a rimorchio dell’iniziativa franco-tedesca perché non ha una propria visione di politica industriale. Può darsi che condivida quella dei due partner, ma nel PNRR, ora in fase di ristesura, non vi è traccia di un grande disegno. Si limita, piuttosto, ad adempiere le richieste della Commissione. Eppure, il Paese ha bisogno di ricomporre i suoi frammentati interventi nell’ambito di un’organica visione di politica industriale, una visione che sia centrata sui suoi problemi di sistema e prefiguri la strada per far evolvere il sistema verso nuovi assetti che consentano il ritorno alla perduta prosperità.


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