Il 15 marzo 1981 moriva René Clair (all’anagrafe René Chomette, Paris 11 novembre 1898), letterato, critico cinematografico e attore, considerato da molti il miglior regista del cinema francese di tutti i tempi. Dal tocco leggero e delicatamente graffiante la sua poetica, che fece tesoro delle intuizioni chapliniane, anticipò Frank Capra e Vittorio de Sica. Autore abile sia nel cinema d’avanguardia che nella commedia leggera innestata sulla tradizione del vaudeville francese da Labiche a Becque
Parigino del quartiere de Les Halles, con un buon liceo alle spalle e la passione per la letteratura (ebbe il buon gusto dei veri autori, quello di lasciare le sue raccolte inedite), fa il critico letterario (si parla di una sua calibrata recensione del primo volume della Recherche di Marcel Proust nel 1913), arrivò alla regia grazie a suo fratello Henri Chomette, poco dopo essersi fatto apprezzare come attore in alcuni melodrammi (L’Orpheline) di Louis Feuillade degli anni Dieci.
Entr’acte e “la Repubblica”
Dopo aver imparato il mestiere di cineasta facendo l’assistente alla regia di esperti “direttori” come Jacques de Baroncelli e Henri Diamant-Berger, autentici metteurs en scène del nascente cinema narrativo francese, riesce a realizzare nel 1923 un film strano, Paris qui dort (Parigi che dorme), distribuito solo nel 1925, dopo il successo del cortometraggio Entr’acte (1924). Quest’ultimo venne concepito come “intermezzo” (questa la traduzione in italiano) di uno spettacolo di balletti svedesi, “Relâche” di Francis Picabia.
Il corto diverrà subito famoso nel mondo degli artisti (pittori, musicisti, registi, fotografi, scenografi). Azioni volutamente illogiche, che vanno da un cannone trasportato da due personaggi (sono Erik Satie e Francis Picabia), dai movimenti degli attori al ralenti, e puntato contro il pubblico; una “ballerina” classica che poi si scopre essere un uomo con barba posticcia; un carro funebre trainato da un cammello, con tanto di corteo borghese, messo in crisi dalla corsa pazza e accelerata del feretro sganciatosi dal quadrupede. Con, nel finale, il morto che risorge dalla cassa e fa scomparire tutti i presenti, egli incluso, con una bacchetta magica alla Méliès.
Entr’acte fu considerato subito il manifesto del dadaismo cinematografico, il trionfo del non-sense o meglio del significato che ognuno poteva liberamente affidare alle immagini. Insomma, il precursore dell’ “opera aperta” novecentesca, di cui parleranno Roman Ingarden e Umberto Eco anni dopo. Chi scrive appartenne alla generazione di studenti universitari che nel 1978, a vent’anni, poté scoprire questo piccolo capolavoro durante le lezioni di storia del cinema di Mario Verdone. Tra noi studenti, che vivevano di letteratura, concerti, arte e cineclub, alcuni giorni prima della proiezione, si sparse la voce che il prof “avrebbe dato” Entr’acte, una copia in 16mm, che gli aveva personalmente regalato René Clair. Così scoprimmo l’avanguardia francese a Roma, in Piazza Indipendenza, nello stesso palazzo che da pochi mesi ospitava il neonato quotidiano “la Repubblica”. Noi ci sentivamo antiborghesi, affamati di cinema e “rivoluzionari”; altri facevano gli “indiani metropolitani” occupando le facoltà.
Parigi surreale e popolare
Poi scoprimmo che René Clair era un perfetto pittore nel raccontare la sua Parigi come il Belli la sua Roma. In Paris qui dort (realizzato prima di Entr’acte, come anticipato sopra) coglieva la città nei suoi aspetti naturalmente scenografici, all’alba, prima che si svegliasse. Qui, uno scienziato, lo zio corpulento e geniale di una bionda fanciulla, produce dal suo studio, un raggio che immobilizza la vita. Tutti sono fermi, come congelati, uomini e automobili, nel mezzo dell’azione che si sta compiendo. Un poliziotto che insegue un pick-pocket d’orologi; un tassista addormentato alla guida del suo taxi; un cameriere nel ristorante mentre serve; un passante; una coppia di innamorati; ecc. La Parigi, anche questa dadaista e pre-surrealista, lascerà il posto, anni dopo, a una Parigi romantica e popolare quella di Sotto i tetti di Parigi (Sous le toits de Paris, 1930), raccontata con gli acquarelli poetici di un Gioacchino Belli.
La commedia intelligente
La tradizione del vaudeville e della pochade che da Eugène Labiche porta a Henry Becque, trova una perfetta reinvenzione filmica, di un fine umorismo, dal leggero tocco nella direzione attoriale, nel suo cinema successivo. I grandi autori della sophisticated comedy hollywoodiana (Frank Capra, George Cukor, Gregory La Cava, Billy Wilder, incluso l’esperto Ernst Lubitsch) correvano in sala ad ogni film di Clair che attraversava l’Atlantico.
Il Milione (Le Million, 1931), storia di un biglietto che passa di mano in mano, e A me la libertà (À nous la liberté, 1931), il desiderio di uscire dalla prigione e vivere liberi (Chaplin, cinque anni dopo, pare che gli copiò la scena finale di Tempi moderni; Clair: “Per me è un onore se si fosse ispirato al mio film”), insieme City Light (Luci della città, 1931, Chaplin), sono i film-cerniera della nuova commedia inizio anni Trenta. Quella che segnò il delicato passaggio dal muto al sonoro. Quel genere che, sia in Francia che ad Hollywood, sfidò la voce dei primi brillanti dialoghi del sonoro, contrappuntati da un humour e da un’ironia gentili, all’interno di soffici intrecci narrativi non prevedibili.
Raccontare il mistero tra una risata e l’altra
Durante gli anni tristi della seconda guerra mondiale, René Clair dimostra di saper giocare delicatamente anche con l’imponderabile, il mistero, il fantastico quotidiano, quello che piaceva a Oscar Wilde e a Guillaume Apollinaire, lasciandoci film indimenticabili per aver smontato l’umorismo irrazionale e rimontandolo in soluzioni spiritose, impressioniste e poetiche, quello di Ho sposato una strega (1942), in cui l’amore di una buona strega (Veronica Lake, splendida) vince su tutto, e Avvenne domani (1944), dove viene gentilmente preso in giro l’ “istant press”, anni prima di internet.