Letta non deve immaginare che il Pd torni centrale per effetto di un’astuzia di manovra. La centralità si recupera soltanto se prevale l’apertura al corpo intermedio dell’elettorato, da troppo tempo esasperato e disilluso. Il commento di Giuseppe Fioroni
Mentre gli italiani misurano lo sforzo delle istituzioni nella lotta alla pandemia, con l’ansia della ripartenza dopo tanti mesi di restrizioni e sacrifici, l’impegno dei partiti si dispiega a fatica lungo la traiettoria di un riordino necessario del sistema politico.
Si tratta di un’azione che implica, anzitutto sul versante della maggioranza, un’assoluta dimostrazione di equilibrio e responsabilità. Non può rappresentare, infatti, una ragione di subdolo conflitto con il governo Draghi. Questa consapevolezza è viva nel Pd, fa parte del suo dna, traspare nel nostro sentimento collettivo.
È merito di Letta l’abbandono di qualsiasi incertezza o ritrosia a riguardo dell’inedito compromesso che si è materializzato con l’avvento di questo Esecutivo. Siamo nel vortice di una transizione che muove, in primo luogo, dalle preoccupazioni per l’emergenza sanitaria ed economica. Occorre pertanto assicurare un certo grado di compostezza e linearità nel portare avanti le ragioni della propria parte politica. Oggi tutto serve meno che un partito di lotta e di governo.
Ciò non toglie che al Nazareno ci si adoperi legittimamente affinché il sostegno al governo vada di pari passo con la valorizzazione di un progetto di partito. L’importante è rispettare quel vincolo che Draghi ha indicato con l’invito ad accantonare le “bandiere identitarie”.
A questo punto, qual è il problema di Letta? Il mandato ricevuto è così forte, segno di corale apprezzamento per le sue indubbie qualità personali, da non lasciare margini di equivoco. La questione delle correnti, di solito agitata quando le leadership palesano un deficit di proposta e iniziativa, non deve costituire alibi residuo. Il vero dilemma consiste nel dire e non dire una parola di chiarezza sulla strategia politica di fondo.
Il giacobinismo di per sé corrode la figura di un soggetto che si fregi, come nel caso del Pd, del titolo di “democratico”. Non è la risposta giusta agli interrogativi presenti, anzi declina ancor più nell’abuso di un potere opacizzato se manca di un progetto politico coerente. È un rischio da evitare, con prudenza e avvedutezza, pena la caduta in breve tempo in un gioco velleitario di pretese senza sbocco.
Chiudere il Pd nella logica del fatalismo, per cui si fa finta di non vedere le distanze che intercorrono nella società tra visioni assai diverse del progresso, sicché l’opzione riformatrice sbiadisce a contatto con l’inconsistenza del post-populismo, significa mancare alla promessa di un cambio effettivo di indirizzo politico. Significa usare tutto l’armamentario polemico a disposizione, con l’ossessione di presunti nemici interni, per mascherare un’operazione che denota un grado elevato di continuità nella prefigurazione di una dubbia alleanza strategica.
Letta, in sostanza, non deve immaginare che il Pd torni centrale per effetto di un’astuzia di manovra. Invece la centralità si recupera soltanto se prevale l’apertura al corpo intermedio dell’elettorato, da troppo tempo esasperato e disilluso, tanto da vivere il distacco dalle urne in un empito di estraniazione dalla politica. In assenza di un ruolo attivo del Pd, volto a rimotivare la fiducia di tanti democratici senza partito, in ogni caso “resistenti” alla politica dell’esasperazione, esiste l’incombenza di una destra produttiva di facili sicurezze, infine capace di strappare consenso a dispetto della modernità della sinistra.
La sfida non è semplice, ma Letta ha intelligenza e prestigio per vincerla.