I tavoli di collaborazione sono aperti, ma i problemi non mancano. Risolveremo la questione entro metà 2021? Un webinar di AmCham consente agli esperti di analizzare lo stato e i problemi del dibattito internazionale sulla tassazione digitale
La questione delle tasse sui servizi digitali è stata per anni motivo di conflitto, non solo tra compagnie tech e governi, ma tra regulators, autorità nazionali e internazionali. Finora i negoziati in seno all’OCSE non hanno prodotto risultati apprezzabili, gli Stati Uniti sotto Donald Trump si sono chiusi a riccio, l’Unione europea ha sventolato due pacchetti di direttive che colpirebbero perlopiù le aziende americane e la metà dei Paesi europei ha approvato, o sta approvando, tasse digitali unilaterali. Ma l’arrivo di Joe Biden e il ritorno dell’America ai tavoli multilaterali hanno riaperto le danze.
Al meeting G20 della scorsa settimana, ospitato dall’Italia, la nuova segretaria del Tesoro americano Janet Yellen ha lasciato cadere quella che le controparti ritenevano un’imposizione trumpiana irricevibile, ossia il safe harbor (porto sicuro, ndr), che sollevava le aziende tech statunitensi dal dover pagare imposte sul digitale all’estero. La segretaria ha promesso il rinnovo dell’impegno americano per “superare i disaccordi e trovare soluzioni fattibili in una maniera equa e giudiziosa.”
Ora che i tavoli sono riaperti si tratta appunto di finalizzare e (far) approvare le infrastrutture legali. E però, come ha detto il neoministro dell’economia Daniele Franco al G20, “il diavolo sta nei dettagli”. Per sviscerare le questioni, la Camera di Commercio americana (AmCham) in Italia ha voluto riunire in un webinar un gruppo di esperti relatori. Come rimarcato in apertura da Simone Crolla, direttore di AmCham Italia, il momento è quanto mai opportuno: il Covid ha impresso un’accelerazione sulle attività digitali e sull’e-commerce, rendendo la questione ancora più pressante, e il G20 (a guida italiana) può aiutare a impostare il dialogo.
Il perno, inevitabilmente, è convenire su un regime di tassazione che vada bene per tutti. “Avere al tavolo gli Stati Uniti su questo argomento è fondamentale per dare l’avvio a quella che sarà una soluzione sperabilmente concertata”, ha detto Maricla Pennesi, Presidente del Gruppo di Lavoro Politiche Fiscali di AmCham Italia e coordinatrice sui temi fiscali italiani ed europei presso lo studio legale Andersen. C’è consenso sul fatto che le tasse unilaterali ostacolino il business digitale, spiega; occorre cautela nel trattare le questioni ancora aperte, tra cui gli stessi criteri per capire quanto imporre a livello locale, e su quali dati.
Daniel Ross, consigliere economico dell’ambasciata statunitense a Roma, si è fatto portavoce della posizione di Washington, dove intendono chiudere un accordo entro la metà del 2021. “Vogliamo dare sicurezze ai contribuenti, minimizzare i carichi amministrativi, evitare doppie tassazioni e assicurare un terreno di gioco equilibrato per tutti i partecipanti”, ha detto, andando poi a evidenziare gli effetti negativi delle tassazioni unilaterali sulle PMI, meno equipaggiate per orientarsi in un mare di regimi diversi e costrette a scaricare alcuni costi sull’utente finale.
D’accordo anche il Direttore Generale delle Finanze al MEF, la professoressa Fabrizia Lapecorella, che ha definito inadeguata anche la tassa sul digitale italiana entrata in vigore quest’anno per aziende che hanno almeno 750 milioni di ricavi. Il 16 marzo sono attesi i versamenti, il 30 aprile dovrebbero arrivare le dichiarazioni dei redditi. La legge è figlia di “forti pressioni politiche” sui governi precedenti, ha detto il direttore, ma contiene una sunset clause che la farà decadere non appena sarà implementato a livello domestico un futuro regime di tassazione internazionale.
Secondo Lapecorella, occorre riconoscere che le regole fiscali esistenti non sono adeguate né per quanto riguarda il luogo in cui vengono generati I profitti (questione complessa se si tratta di prodotti, per l’appunto, virtuali), né per tappare I “buchi” esistenti, che permettono alle compagnie di eludere il fisco o traslare i profitti altrove. La risposta più adeguata è nel pacchetto presentato dai ministri delle finanze del G20 l’anno scorso, ha continuato, e rappresenta una solida base per raggiungere un accordo.
La questione fondamentale ruota attorno ai due pillars (pilastri) del futuro regime fiscale internazionale, ha spiegato Christoph Wissmann, Direttore Senior di politica fiscale internazionale presso la multinazionale Procter & Gamble. Il primo è la riallocazione del profitto verso i Paesi destinatari (a cui Trump si era opposto), il secondo è l’aliquota d’imposta minima per i servizi digitali. Ebbene: i criteri sono ancora confusionari.
Per esempio, i soggetti di questo futuribile regime sono designati come “compagnie che forniscono servizi digitali automatizzati rivolti al cliente”: a chi si applica? Cosa cambia tra una grande multinazionale tecnologica e, poniamo, un commerciante con un sito web? E per quanto riguarda il secondo pillar, come si determina dove sono “consumati” i dati, nei server dell’azienda o sul territorio?
Robert Stack, Managing Director di Deloitte, ha rincarato la dose, ponendo punti interrogativi su concetti come “rivolto ai consumatori” (“vale solo per le aziende digitali o tutte quelle che sono ‘rivolte ai consumatori’?”), quota di “riallocazione” dei profitti, garanzie per le aziende coinvolte, condizioni entro le quali i singoli Paesi possono protestare, ed effetti su quelli in via di sviluppo. Le domande, insomma, sono ancora moltissime, le risposte incomplete e potenzialmente dannose.
L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti è intervenuto, breve e lapidario, sul “passaggio fondamentale ma difficilissimo” dell’accordo internazionale sui regimi digitali, la cui difficoltà è esemplificata dalle 500 pagine del trattato italiano. “Quando inizi con meccanismi di questa difficoltà sai come inizi ma non come finisci”, ha commentato.
Raggiunta da Formiche.net per l’occasione, Sarah Supino, Dottore di Ricerca presso la LUISS ed esperta di tassazione digitale, si è detta molto scettica riguardo alle reali possibilità di raggiungere un vero accordo internazionale entro metà 2021. La legge italiana sull’imposta sui servizi digitali è inoltre così complessa e “originale” – non esistendo attualmente in Italia un’imposta analoga – che risulta di difficile applicazione per le imprese e per tutti gli addetti ai lavori, ivi inclusa l’amministrazione finanziaria.
Dopo aver partecipato alla consultazione pubblica di dicembre scorso, l’esperta ha visto pubblicare a gennaio il primo provvedimento direttoriale esplicativo, che per molti aspetti ha creato un certo malcontento nei settori coinvolti. Troppo poco tempo, troppe lacune, una potenziale spada di Damocle per le imprese coinvolte nel marketing pubblicitario online; per dirne una, non si capisce nemmeno se debba essere il grande intermediario estero (per tutti, Google) o il blog italiano che ne ospita le pubblicità a pagare questa imposta, ha spiegato Supino. Sembra anzi, e questo è un assurdo, che in certi casi debbano pagarla entrambi sullo stesso flusso di ricavi.
C’è però motivo di speranza, e su questo hanno convenuto quasi tutti i relatori alla conferenza AmCham. Susan Danger, CEO di AmCham EU, ha commentato che il consenso internazionale è essenziale per interpretare e regolamentare la “rivoluzione digitale in atto”, che impatta “tutti gli aspetti dell’economia”. Occorrono soluzioni che promuovano l’innovazione, che spingano la crescita economica globale in avanti e ci aiutino a uscire dalla palude della pandemia.
Possiamo resettare la relazione con gli USA, ha continuato Danger, e sfruttare la loro leadership. Anche l’Ue dovrà intervenire presentando una risposta sulla tassazione digitale entro metà anno, ha ricordato Lapecorella, che si è dichiarata ottimista. Se fatto doviziosamente, se i compromessi sono raggiunti, il nuovo regime di tassazione internazionale può davvero avvantaggiare tutti.