Rebecca Arcesati, analista del centro studi tedesco Merics, spiega come con Biden l’agenda tech Usa sia positiva e improntata al coordinamento con gli alleati. E anche l’Europa inizia a preoccuparsi dell’ascesa cinese. Ma occhio all’asse Pechino-Mosca
Da quando Joe Biden è entrato alla Casa Bianca si sono rafforzati gli sforzi delle democrazie per trovare una qualche forma di cooperazione su protezione, sviluppo, implementazione, definizione di standard e regolamentazione delle tecnologie critiche.
Infatti, se con Donald Trump gli Stati Uniti avevano privilegiato un confronto unilaterale con la Cina, oggi sono a caccia di alleati. E il recente discorso del segretario di Stato americano Antony Blinken sembra dimostrarlo. L’approccio di Washington è passato dagli ultimatum – come quelli sul 5G cinese che hanno raggiunto anche l’Italia – a un’agenda positiva e di coordinamento con gli alleati che pure non è priva di paletti.
Si è parlato così di allargamento del G7 per trasformarlo in un “club delle democrazie” – alleanza che però difficilmente verrà formalizzata a breve viste le resistenze di diversi Paesi da cui è conseguita la disponibilità statunitense a valutare geometrie variabili e patti non dichiarati purché concreti. Inoltre, recentemente si è tenuto il primo storico summit tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti in formato Quad per parlare di cooperazione militare ma anche commerciale, sanitaria e strategica nell’Indo-Pacifico. Un incontro che conferma che l’Indo-Pacifico rappresenta la priorità dell’amministrazione Biden pur non implicando un si disimpegno dall’Europa, come ha illustrato Richard Fointane, numero uno del think tank statunitense Cnas, in una recente intervista con Formiche.net.
Per quanto riguarda le priorità “tematiche” spicca la cooperazione in campo tecnologico con gli alleati. È “una priorità per l’amministrazione Biden, ed è strettamente collegata alla politica sulla Cina”, spiega a Formiche.net Rebecca Arcesati, analista del Merics, centro studi di Berlino che la scorsa settimana è finito sotto sanzioni da parte del governo cinese per via delle sue ricerche sulla repressione della minoranza uigura nello Xinjiang (che Pechino nega con forza e non poca aggressività).
Proprio il caso delle sanzioni occidentali con la reazione sproporzionata oltreché rabbiosa del governo cinese testimonia il fatto che non l’intraprendenza statunitense abbia come trovato un’ottima sponda negli atteggiamenti di Pechino, in grado di riavvicinare gli alleati. Basti pensare che dopo l’escalation diplomatica della scorsa settimana molti europarlamentari stanno minacciando di non votare l’accordo sugli investimenti tra Unione europea e Cina. Nello specifico della tecnologia, “le azioni e le politiche della Cina – un sofisticato programma di trasferimento di tecnologie e talenti stranieri, l’uso di strumenti avanzati per la sorveglianza sociale su larga scala e le violazioni dei diritti umani e gli sforzi per integrare l’innovazione civile e militare per citarne alcuni – hanno dato impulso all’allineamento delle democrazie”, sottolinea Arcesati.
Ma il caso dello Xinjiang torna utile anche per spiegare perché “la dicotomia tra democrazie e regimi autoritari”, declinata dal segretario di Stato americano Antony Blinken anche in ambito tecnologico, “appaia più semplice di quanto è nella realtà”, continua l’esperta. “La tecnologia è globale e supera i confini. Il fatto che hardware e software europei e americani diventino strumenti della repressione digitale in Cina e altrove lo dimostra”. L’Unione europea “lo sa molto bene”, continua Arcesati. Ed è “il motivo per cui sta lavorando a un nuovo quadro di controllo delle esportazioni per le tecnologie di sorveglianza e sta anche pensando più seriamente ai controlli sulle importazioni”, aggiunge ricordando la recente enfasi posta dalla Commissione europea – per esempio nella 2030 Digital Compass – su diritti umani, democrazia e etica dell’intelligence artificiale.
Un esempio di quanto sia troppo semplice ridurre tutto alla dicotomia tra tecno-autocrazie e tecno-democrazie? La governance digitale, tema che divide i cosiddetti “like-minded countries”. “Al di là dell’ovvia competizione economica (si pensi alla disputa Boeing-Airbus), resta da vedere se le democrazie possano colmare le loro differenze ideologiche e articolare una visione collettiva per la trasformazione digitale e il nostro futuro digitale”, dice Arcesati. “Le divisioni transatlantiche sulla privacy dei dati (si pensati al fallimento del Privacy Shield) e la regolamentazione e la responsabilità delle piattaforme digitali sono ottimi esempi di alcune delle questioni su cui stiamo assistendo ad approcci divergenti”. Ma c’è “una buona notizia”, spiega: “le divisioni non sono insuperabili. Per esempio, le indagini antitrust contro Google e Facebook negli Stati Uniti dimostrano che gli sforzi per ripristinare la democrazia nel nostro mondo digitale sono globali”.
Arcesati individua tra le ragioni dell’“urgenza di un migliore coordinamento” il fatto che a fronte di comuni preoccupazioni le democrazie leader nel settore tecnologico non abbiamo canali adatti per affrontarle in maniera collettiva. “La cooperazione internazionale in materia di ricerca e sviluppo ha una storia importante”, dice. “Ma quando si tratta di questioni come lo screening degli investimenti, i controlli delle esportazioni per le tecnologie emergenti e fondamentali, le regole che governano lo sviluppo e l’applicazione di strumenti come il riconoscimento biometrico o la sicurezza delle infrastrutture digitali, ci troviamo davanti un mosaico di approcci frammentati e disarticolati”.
Arcesati tocca altri due temi. Il primo riguarda le economie emergenti. Pensiamo al Sud del mondo, dove la Cina attraverso la Digital Silk Road ha realizzato infrastrutture digitali ottenendo in cambio maggior forza nel piegare le regole della trasformazione digitale. Alla luce di questo, “le democrazie dovrebbero stanziare risorse per finanziare infrastrutture digitali sicure e sostenibili e sostenere l’inclusione digitale nei Paesi terzi”, spiega.
Il secondo è l’asse Cina-Russia che i due Paesi hanno voluto dimostrare nei giorni della ministeriale Nato con un incontro tra i capi delle diplomazie Wang Yi e Sergej Lavrov. Quest’ultimo, nota Arcesati, “ha invitato Russia e Cina a collaborare per diventare tecnologicamente più indipendenti e ridurre la loro esposizione alle sanzioni statunitensi allontanandosi dal dollaro statunitense e dai sistemi di pagamento internazionali occidentali. Penso che assisteremo a un approfondimento della cooperazione high-tech tra le due parti, qualcosa che i governi europei dovranno monitorare più da vicino”, conclude.