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Dopo l’Ue, l’Asia. Giovanni Tria legge i piani (economici) di Biden

La tregua sui dazi fra Ue e Usa è solo una puntata all’interno della vera guerra commerciale fra Washington DC e Pechino. L’obiettivo di Biden non è tanto il contenimento della Cina quanto la revisione (occidentale) delle regole della globalizzazione. L’analisi di Giovanni Tria, già ministro dell’Economia, professore di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata

Dopo l’accordo con la Gran Bretagna di Boris Johnson, l’amministrazione Biden si accorda anche con la Ue per la sospensione temporanea di quattro mesi dei dazi posti reciprocamente dalle due parti su circa 11,5 miliardi di dollari di prodotti importati dalle due parti.

La temporaneità è data dalla speranza di arrivare nel frattempo ad un accordo sul contenzioso riguardante gli aiuti di stato che secondo le accuse reciproche avrebbero distorto la concorrenza tra l’industria aeronautica americana (Boeing) e quella europea (Airbus).

I dazi contro prodotti europei per circa 7,5 miliardi di dollari furono decisi dall’amministrazione Trump e ad essi ebbe seguito, per ritorsione, l’applicazione di dazi da parte europea su prodotti importati americani per circa 4 miliardi. L’accordo è importante per vari motivi, soprattutto se verrà seguito dalla chiusura di altre controversie commerciali appesantite da dazi, come quelle sulle importazioni di derivati dell’acciaio e dell’alluminio, e quindi se l’accordo si confermerà come segnale di una nuova fase dei rapporti commerciali tra le due sponde dell’atlantico.

Il primo motivo di importanza è dato dall’effetto diretto sulle esportazioni europee e in particolare su quelle italiane, soprattutto se la sospensione temporanea si tradurrà in una eliminazione permanente. Non c’è dubbio che è interesse europeo ripristinare condizioni di libero commercio uscendo dalle politiche commerciali aggressive dell’amministrazione Trump nel momento in cui ci si aspetta una ripresa economica molto più forte e rapida negli Stati Uniti rispetto all’Europa.

Ciò significa che nel breve periodo ci sarà più vantaggio per l’Europa dalla possibilità di avvalersi della ripresa della domanda interna negli Stati Uniti rispetto all’effetto reciproco sulle esportazioni americane. Tuttavia, l’importanza dell’accordo va oltre questi effetti immediati e diretti perché dà il segno di un mutamento di clima, anche se non sono ancora chiare tutte le possibili evoluzioni.

La “piccola” guerra commerciale tra Usa e Ue era infatti il prodotto non solo di specifici contenziosi commerciali ma della più generale aggressività commerciale dell’amministrazione Trump che pensava di risolvere in chiave protezionistica i problemi posti dal disavanzo commerciale degli Stati Uniti con il resto del mondo.

Anche se tale disavanzo che con ogni evidenza deriva essenzialmente dallo squilibrio interno americano tra risparmio e investimento che si riflette inevitabilmente in uno squilibrio esterno. Ed è difficile che, visto in questa luce, si prospettino grandi miglioramenti nel prossimo futuro a fronte del colossale programma di stimoli fiscali appena varato dall’amministrazione americana.

In ogni caso, la piccola guerra dei dazi tra Usa e Ue nasce nel clima della vera guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti alimentata da un problema di competizione strategica e non risolvibile da politiche protezionistiche commerciali. Il secondo, e maggiore, motivo per il quale questo parziale accordo è importante sta, quindi, nel rappresentare il segno concreto di una volontà di ricercare nella cooperazione internazionale e nel multilateralismo la soluzione ai problemi di competizione strategica.

Questo significherebbe procedere sulla strada di una ridefinizione della governance globale economica e, in questo quadro, preservare i vantaggi della globalizzazione. Se questo è l’obiettivo, il rafforzamento dei rapporti transatlantici, non solo sul piano della sicurezza, aiuta a creare un clima in cui le controversie con la Cina e altri Paesi emergenti possono essere affrontati con benefici globali.

Allo stesso modo dovrebbe essere visto l’accordo di principio tra Ue e Cina sugli investimenti, il Comprehensive Agreement on Investment. Credo sia sbagliato guardare quest’ultimo accordo come allontanamento dalla solidarietà atlantica, così come credo lo sia interpretare e accogliere la sospensione dei dazi sugli scambi commerciali tra Ue e USA in funzione dell’obiettivo di “contenimento” della “aggressività” economica cinese.

Ricordiamo che la seconda parte del 2020 ci ha regalato anche l’accordo asiatico di libero scambio (la Regional Comprehensive Economic Partnership) che riunisce 15 paesi asiatici, compresi Cina e Giappone, che rappresentano circa un terzo della popolazione e del Pil mondiale. Un accordo visto in chiave di espansione dell’influenza economica della Cina o perlomeno come un suo successo diplomatico. Eppure sono tra i firmatari di questo accordo alcuni dei paesi facenti parte del cosiddetto Quad (Quadrilateral Security Dialogue) che gli Usa sembrano voler rilanciare.

Ho l’impressione che siamo di fronte a un bivio importante. Tutti questi accordi regionali, parziali e di diversa natura sono positivi in chiave di passi verso nuovi accordi globali che coinvolgano Asia , Europa e America. Il mondo dovrebbe cercare di evitare la logica del decoupling, cioè della creazione di mondi contrapposti.

La ricerca di nuove regole globali nell’ambito delle istituzioni multilaterali dovrebbe sostituire una indesiderabile accelerazione del processo di ritiro dalla globalizzazione e dai suoi vantaggi.

Quel che va rafforzato è un metodo paziente di abbattimento di barriere e di ricerca di cooperazione per il sostegno dell’economia globale, necessario per l’assestamento delle economie post Covid-19, e non interpretare ogni accordo tra paesi in termini di contrapposizione ad altri. Per non sfuggire il problema, è bene ripetere che accordi che rafforzino le alleanze atlantiche, anche in campo economico, sono benvenuti e necessari, anche perché è quando ci si sente insicuri che si diventa aggressivi. Ma questo vale per tutti i paesi. Interpretare le inevitabili competizioni in termini di conflitto strategico è invece sempre pericoloso, al di là delle buone intenzioni.

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