Zingaretti ha lasciato il campo con un senso di amarezza molto forte ma anche con la consapevolezza di aver messo mano ad un progetto ed ad una strategia che sono risultati perdenti. La logica politica suggerirebbe di investire su una rotta diversa, magari spostando il baricentro del partito verso un asse meno sbilanciato a sinistra. C’è da scommettere che, invece, questo non avverrà. La rubrica di Pino Pisicchio
Diciamola tutta: non è che lo specifico della politica italiana abbia una famigliarità così intensa con l’istituto delle dimissioni. Più amichevole il rapporto con l’hic manebimus optime, intendendo l’aforisma di Tito Livio non come incitamento a difendere il Senato Romano dalle invasioni barbariche, ma, più modestamente (e non con minore eroismo): “Col cavolo che me ne vado di qui”. E allora, quando un segretario di partito, anzi, di quello che in molti considerano come l’ultimo fenomeno in giro che ancora sembra somigliare ad un partito, si dimette, beh, la prima cosa che ti viene in mente è di rendergli merito per aver fatto un gesto così inusuale. Quasi scespiriano.
Zingaretti si è dimesso, dunque, con una dichiarazione netta e non affatto edulcorata dal lessico buro-politichese. “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”. Dopo questo sfogo lanciato da Facebook, Zinga trae la conseguenza logica. Gesto che merita rispetto, non c’è dubbio, perché, al di là di alcune reazioni segnate da una naïveté che appartiene al personaggio, si legge un soprassalto di dignità che non sembra oggi diffusissima sulla scena politica.
Se l’istituto delle dimissioni non è nella tradizione italiana, quello della discesa dal cavallo del segretario nazionale ancora meno. Epperò qualche esempio c’è. Renzi, il più vicino nel tempo, si dimise nel 2017 dopo aver perso l’ambizioso referendum sulla riforma costituzionale, lasciando anche la carica di presidente del consiglio. Prima di lui D’Alema, nel 1998, ma lo fece proprio per andare a fare il premier. Nella notte dei tempi, poi, ricordiamo De Mita (1989), Forlani e Craxi travolti da Tangentopoli e, addirittura nella preistoria, Amintore Fanfani, che nel 1959 si dimise da segretario della Dc e da presidente del Consiglio. Diciamo che Renzi si ispirò a lui quando lasciò.
Zingaretti ha lasciato il campo con un senso di amarezza molto forte – il fattore umano è ancora, per fortuna, una cosa che resta anche negli algoritmi della nuova politica – ma anche con la consapevolezza di aver messo mano ad un progetto ed ad una strategia che sono risultati perdenti. In verità il disegno complessivo del rapporto strategico e imperituro con il Movimento Cinque Stelle e della difesa perinde ac cadaver di Conte, è stato ufficialmente concepito e divulgato da Bettini, in veste di maître con l’obiettivo di rifare grande e forte una sinistra ad egemonia piddina. Ma se la strategia fallisce non paga il maître, paga il padrone del locale. E Zingaretti generosamente paga. Che succederà?
La logica politica suggerirebbe di investire su una rotta diversa (altrimenti perché cambiare il segretario?), magari spostando il baricentro del partito verso un asse meno sbilanciato a sinistra. C’è da scommettere che, invece, questo non avverrà. Ereditare le movenze un po’ burocratiche della forma-partito del secolo scorso (con una indole di base che guarda alla sinistra che fu) e vivere in un contesto politico che reclama immediatezza, leadership forti e linguaggio mediatizzabile, non si può.
La crisi di classe dirigente nel Pd è più evidente che in altre formazioni politiche perché dal partito del Nazareno ti aspetti qualcosa di più. Staremo a vedere. Mentre scrivo si diffonde un take di agenzia: “Bonaccini nuovo segretario incaricato”. Sarà una fake? Ed io resto nel dubbio.