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Le dimissioni (di Zingaretti) e la retorica dell’attaccamento al potere

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Non è facile considerarsi ordinari quando si detiene un potere. Eppure, solo il senso della misura del proprio ruolo, delle capacità tecniche e delle qualità etiche personali, può conservare il potere nella sua autenticità. In quest’ottica le dimissioni, meditate e motivate eticamente, sono una grande responsabilità anche per chi ne è coinvolto, cioè sono una lezione per chi resta. L’analisi di Rocco D’Ambrosio

Si è dimesso un papa perché non può farlo un segretario di partito? Non è solo una battuta ma anche una pista di riflessione, visto il numero di giudizi e perplessità sulle dimissioni di Nicola Zingaretti. Personalmente sono tra quelli che ha ammirato il gesto, innanzitutto perché, in Italia, è cosi raro da renderlo prezioso. Nelle democrazie mature si dimettono coloro che subiscono sconfitte elettorali e interne al partito, coloro che ricevono avvisi di garanzia, coinvolti in prassi poco chiare, prima ancora che l’iter giudiziario sia concluso. In Italia un po’ meno, molto meno: diversi dei nostri politici sono passati da queste forche, ma pochi hanno avuto il coraggio e la probità nel dimettersi.

Per dimostrare quanto questa mentalità è radicata, facciamo riferimento ad un’opinione diffusa sul problema delle dimissioni. Capita, non di rado, di ascoltare giudizi negativi su di esse: c’è chi, in maniera poco elegante, ritiene uno sciocco chi rinuncia al potere e ai suoi privilegi; c’è anche chi apporta motivi apparentemente etici, ritenendo le dimissioni inaccettabili, perché considerate come un venir meno alla responsabilità assunta. Orbene, l’autenticità delle dimissioni dipende dall’esercizio di interrogazione della propria coscienza. Chi si dimette, dopo una profonda e motivata analisi di coscienza, non è, né uno sciocco, né uno che rifiuta di assumere le proprie responsabilità, anzi è tutt’altro: è una persona assennata, coerente e responsabile. In altri termini la coscienza personale è limite interno ed esterno dell’esercizio di potere. In questa luce, crediamo sia importante fare riferimento alla grande lezione di rettitudine di coscienza e responsabilità che ha portato alle dimissioni papa Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013.

Ad onor del vero bisogna, allora, dire che questa diffusa “retorica anti-dimissioni” altro non è che una delle tante patologie di attaccamento al potere, in genere propagandata da uomini e donne così meschini e attaccati alle forme più deleterie di potere, tanto da non avere la maturità e il coraggio di saperlo condividere o perdere. Non ho elementi e titoli per entrare nel merito delle dimissioni di Zingaretti, mi concentro solo ed esclusivamente sull’atto delle dimissioni. Ci aiuta a far luce una interessante lettera di Carl Gustav Jung, del 1958, in cui il famoso psicanalista risponde a una signora, sindaca di una città, che gli chiede quali sono i sintomi che presagiscono una sorta di “malattia del potere”.

“Cara Signora C. se si dovesse accorgere che i sintomi del potere si stanno diffondendo intorno a lei, allora abbandoni un po’ del suo potere e consenta agli altri di assumere maggiori responsabilità. Questo le insegnerà qualcosa di molto importante. Gli altri impareranno dal canto loro che maggior potere e maggior influenza portano con sé maggior sofferenza, così come lei sta apprendendo dalle attuali circostanze. Non si dovrebbe cercare di affermare il proprio potere così a lungo da trovarsi nella situazione di rischiare di dover ricorrere alla violenza. La ricerca costante dell’affermazione del potere lavora contro il potere, e il potere è tanto più ricercato quanto più si teme di perderlo. Non si dovrebbe aver paura di perderlo. A perdere potere si guadagna in serenità. Cordialità”.

Dell’illuminante testimonianza, poniamo l’accento soprattutto su un aspetto profondo: il potere lega interiormente più di quello che si crede. Bisogna imparare a perderlo. Infatti, coloro che, nelle più disparate istituzioni, lo hanno esercitato con somma eticità e provata competenza, sono quelli che hanno saputo rinunciare o condividerlo in maniera più ampia; che non hanno cercato, magari ad ogni costo, di ottenerlo nuovamente e che sono stati capaci, dove necessario, di passarlo ad altri. Parliamo di testimoni capaci di vivere con libertà ogni loro impegno, di purificarsi continuamente dalle scorie negative del potere, di sottoporsi ad un costante discernimento personale ed a seri percorsi di formazione e auto-formazione, ad una proficua verifica comunitaria.

Il non attaccarsi morbosamente al potere dipende, anche, dall’impegno a non mitizzare chi lo detiene, a non renderlo oggetto di un celebrazionismo continuo: si pensi a quei politici così auoreferenziali, spesso immaturi e immorali, che devono stare sempre sulla scena mediatica e se per caso qualcuno, per un motivo serio o meno, li esclude diventano vendicativi e distruttivi. Riportiamo la testimonianza di uno statista che ha vissuto il suo potere con profondo distacco, seria riservatezza e assiduo impegno per il bene comune. Parliamo di Alcide De Gasperi, il quale, sul rischio della mitizzazione, così si esprimeva nel primo dopoguerra, rivolgendosi ai suoi compagni di partito: “Vi prego di fare un certo sforzo per superare il metodo della mitologia politica. Non ci sono uomini straordinari. Vi dirò di più, non ci sono uomini dentro il partito e fuori pari alla grandezza del problema che ci sta di fronte. Bisogna presentarsi dinanzi agli avvenimenti esterni ed interni con l’umiltà di riconoscere che essi superano la nostra misura… Per risolvere i problemi vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell’onestà… sono un uomo che ha l’ambizione di essere onesto. Quel poco d’intelligenza che ho la metto al servizio della verità… mi sento un cercatore, un uomo che va a ricercare i filoni della verità della quale abbiamo bisogno come l’acqua sorgente e viva delle fonti. Non voglio essere altro”.

Non è facile considerarsi ordinari quando si detiene un potere. Eppure, solo il senso della misura del proprio ruolo, delle capacità tecniche e delle qualità etiche personali, può conservare il potere nella sua autenticità. Non si mitizza nessuno perché chi esercita un potere è persona umana come tutte le altre. L’autenticità delle prassi di potere non può conservarsi senza un esercizio di umiltà. Il richiamo all’umiltà, virtù molto citata nei contesti religiosi, non significa assolutamente l’affermare che l’autenticità dell’esercizio del potere sia prerogativa esclusiva dei credenti delle varie fedi. Vuol dire, invece, porre l’accento su come l’autenticità abbia una sorgente unica e imprescindibile: la propria interiorità. È nell’intimo di se stessi che si decide la misura del proprio agire, i principi di riferimento e gli strumenti per non cedere alle diverse tentazioni. Si pensi alle costituzionali “disciplina e onore” (art. 54). L’autenticità dell’esercizio del potere dipende dal riferimento costante a principi alti, non obbligatoriamente religiosi, tuttavia così alti da essere, non solo al di sopra di tutte le degenerazioni del potere, ma, soprattutto, guida e sostegno per ogni uomo e donna che detiene una responsabilità.

In quest’ottica le dimissioni, meditate e motivate eticamente, sono una grande responsabilità anche per chi ne è coinvolto, cioè sono una lezione per chi resta. Nel caso, le dimissioni di Zingaretti saranno meditate e tesorizzate per una crescita culturale, politica ed etica del partito coinvolto? Vedremo…


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