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Zingaretti e il Pd araba fenice. L’analisi di Pasquino

Il Pd, come scriveva Antonio Floridia, è un “partito sbagliato”. Da Veltroni a Zingaretti, non sono mai mancate appassionanti discussioni su nomi e ruoli da dividersi. Sono mancate invece le idee, senza le quali è difficile andare avanti di un passo. Il commento di Gianfranco Pasquino

Mi sono sempre fatto una certa idea del Partito democratico: un partito sbagliato (titolo dell’eccellente analisi  scritta da Antonio Floridia nel libro pubblicato da Castelvecchi nel 2019).

Sbagliato fin dall’inizio quando, nell’estate del 2007, candidato alla  guida del neo-nato Pd, Walter Veltroni fece una “entusiasmante” e vittoriosa cavalcata dal Lingotto a Roma. Nei suoi molti appassionati discorsi Veltroni riuscì a non dire mai che tipo di partito voleva organizzare e guidare preferendo stilare il programma del suo governo prossimo venturo. Destabilizzò Prodi che cadde qualche mese dopo.

Da allora, tutte le volte, oramai molte, cinque, che si tratta di eleggere un segretario, i mass media si accaniscono sui nomi e sulle persone senza chiedere ai candidati che partito cercheranno di costruire.

Zingaretti se n’è andato proprio o essenzialmente perché il dibattito dentro e intorno al partito era ridotto a uno stillicidio di critiche personalistiche con nessuna attenzione a che cosa deve essere un partito democratico in questa fase e a che cosa deve diventare. Purtroppo il (non) nuovo dibattito parte dai nomi, da chi è in pole position e da chi viene candidato/a contro i front runners (uso i termini giornalistici anche se non mi aggradano).

Delle persone sappiamo molto. Sappiamo abbastanza anche delle loro idee politiche spesso definite dall’essere “vicini a …”. Qualcuno è vice-segretario, qualcun altro ha vinto le elezioni contro Salvini (non mi risulta); qualcun(o)a ha una storia ministeriale e il genere “giusto”. A nessuno si chiede quale è la loro idea di partito e anche quali idee (no, ideologia è troppo) vorrebbero porre a (ri)fondamento di un partito democratico e progressista (posso scriverlo? e auspicarlo?) non solo in questa fase e non solo in Europa.

Un partito che è nato sulla avvenuta e certificata fine delle ideologie, ma anche sull’evanescenza da nessuno contrastata delle molto indebolite culture politiche dell’Italia repubblicana, non ha mai pensato che al populismo e al sovranismo, ma anche alla “tecnocrazia” (scusate se è troppo) bisogna contrappore una visione ideale, di idee.

A suo, troppo breve e troppo quieto, tempo, Bersani annunciò nella campagna per le primarie che bisognava “dare un senso a questa storia”, che era la storia del Pci, mai socialdemocratico.

Bisogna, invece, indicare la strada ad un partito, prima a coloro ai quali si chiede l’impegno a trasformare profondamente il Pd attualmente esistente, aprendo effettivamente il reclutamento (le primarie possono servire efficacemente anche a questo scopo), poi a quelli che hanno qualche capacità di elaborazione di idee: un’idea di Europa, un’idea di giustizia sociale, un’idea di partecipazione politica. Mi fermo qui (non sono candidato!).

Sono convinto che con le idee condivise attraverso discussioni anche aspre e dissensi espliciti, ma ricomposti, si costruisce un partito di uomini e donne che andranno alla ricerca di voti per conquistare cariche (non poltrone), costruire coalizioni, andare al governo, attuare un programma. Questo è il catalogo.


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