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Zona rossa, basta stop and go. Il decreto Draghi? Ad una condizione. L’analisi di Mirabelli

Il presidente emerito della Corte Costituzionale commenta il decreto adottato dal governo. “La priorità è quella di tornare alla consuetudine di prima. Da questo dipende anche la ripartenza economica del nostro Paese: serve una prospettiva”. E su Draghi? “Bene la discontinuità rispetto a Conte”

Il rischio da evitare è quello dello “stop and go”. Per il resto, la zona rossa generalizzata (in tutto un lockdown a “maglie larghe”) che si prospetta per il Paese fino a Pasqua può essere “un buon viatico per il ritorno alla normalità”. L’analisi di Cesare Mirabelli, giurista di vaglia e presidente emerito della Corte Costituzionale si incardina sulla fiducia che “queste ulteriori restrizioni possano fungere da input per ritornare a una normalità” che sia però “migliore di prima”.

In qualche modo, quindi, un lavoro sull’autocoscienza collettiva. Il decreto che entrerà in vigore il prossimo 7 aprile di fatto boccia la linea promossa dai presidenti di Regione e impone un altro mese di chiusura. La zona gialla è un ricordo lontano e, a Pasqua più che mai, una chimera. Dal 3 al 5 aprile, infatti, tutta l’Italia sarà inquadrata come zona rossa. “Il punto centrale – così Mirabelli – anche per la ripresa economica è il ritorno alla consuetudine di prima. In questa ottica saluto positivamente il nuovo decreto, purché sottenda a una prospettiva: che questi sforzi servano a far ripartire il Paese. Sennò si rischia davvero di esacerbare ulteriormente gli animi di un’Italia spossata da questa crisi”.

Sul fronte della metodologia impiegata da Draghi, Mirabelli vede una “significativa discontinuità rispetto a quella adottata da Giuseppe Conte”. Nel senso che l’attuale premier “presta un’attenzione molto più elevata rispetto le misure da adottare: una ponderazione frutto di una conoscenza delle fonti giuridiche”. E, anche nel “timing” Draghi batte Conte 10 a 0. “Con Draghi – dice Mirabelli – non ci siamo mai trovati nella condizione di conoscere i provvedimenti (e le chiusure o aperture previste) il giorno prima dell’entrata in vigore. Nel corso del primo lockdown, invece, era prassi consolidata”.

Questo modus operandi che si riflette quindi sulla tecnica comunicativa è spia di una “scarsa conoscenza del tessuto economico italiano: fatto di fornitori, di filiera”. Il ritorno a un “rigoroso ricorso delle fonti normative” marca un sostanziale cambio di passo rispetto al Conte bis. Specie, osserva il giurista, nell’avvalersi dello strumento del “decreto legge, preferendolo al Dpcm”.

I famigerati decreti del presidente del Consiglio “non avevano una copertura legislativa adeguata, colmata solo dai decreti legge confezionati ex post. Non solo: le limitazioni alle libertà personali che imponevano, introducono un tema piuttosto spinoso. Non tanto nella situazione contingente legata al diffondersi della pandemia, bensì in prospettiva, sul futuro”.

Materia quest’ultima oggetto di innumerevoli dibattiti, anche aspri, nel corso del lockdown di marzo 2020. Al netto delle opinioni, la certezza (di Mirabelli) è che “difficilmente è accettabile che un atto amministrativo limiti delle libertà costituzionalmente garantite”. Qui, invero, veniamo all’essenza del problema. “Il decreto legge – prosegue il presidente emerito – prevede un ruolo di controllo politico esercitato dal Parlamento. Ruolo che non è da esercitarsi “per grazia”, bensì per necessità della politica di intervenire e di orientare eventualmente le decisioni del governo”. L’altro aspetto, imprescindibile, sulla valutazione dei provvedimenti assunti dall’esecutivo è lo stato dell’arte del sistema sanitario. “Le scelte dell’Esecutivo – chiude Mirabelli – ancorché di carattere tecnico, dipendono dallo stato occupazione delle terapie intensive e dal sistema sanitario. E, ovviamente, dal progredire della campagna vaccinale”. Ma il termometro dell’efficacia ha una variabile tutt’altro che secondaria: il comportamento delle persone. “Molto più disciplinate durante il primo lockdown rispetto a ora”.

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