Mentre Biden annuncia il ritiro dall’Afghanistan all’11 settembre, la Turchia accresce il proprio peso ospitando i negoziati di pace. Gli Usa potenziano la presenza altrove, con lo sguardo al rischio di intervento russo in Ucraina. L’analisi del gen. Marco Bertolini, già comandante del Coi, primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore di Isaf in Afghanistan. L’Italia? “Dovrà fare tesoro dell’esperienza afghana”
L’intervento del presidente Joe Biden per annunciare il prossimo ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan ha già innescato un’accelerazione di molte dinamiche che coinvolgono anche il nostro Paese. In particolare, lo slittamento della data per il completamento del ritiro, dal primo maggio annunciato dall’amministrazione Trump all’11 settembre scelto da Biden, potrebbe avere conseguenze pratiche importanti.
Non è infatti detto che ai talebani possa andare bene questa dilazione di oltre quattro mesi rispetto alla tabella preventivata, nel qual caso non sono da escludere innalzamenti della tensione con possibili ripercussioni militari sul campo. Giocherà un ruolo importante al riguardo la conferenza tra governo afghano e talebani che si terrà in Turchia proprio a cavallo della prima data, da 24 aprile al 4 maggio, durante la quale le due parti dovrebbero mettere il sigillo definitivo sul percorso di pace iniziato sotto gli auspici di Trump.
Certamente, la scelta da parte statunitense della località per questa importante conferenza rappresenta anche un grosso risultato per Recep Erdogan, che si vede riconoscere da Biden un ruolo importantissimo in Afghanistan, a coronamento di due decenni di impiego nel paese in ruoli sempre centrali. A differenza di altri contingenti della Nato, la Turchia si è sempre mantenuta le mani libere nel Paese, infatti, concentrando le sue forze su Kabul e mettendo molta attenzione nel mantenere un ruolo “defilato” anche nei confronti dei talebani nelle fasi più critiche del conflitto.
Ankara, con questa investitura da parte di Biden, sembra quindi aver ricucito con l’alleato americano gli strappi consumati in Siria con qualche flirt di troppo con Mosca, e può ora aspirare a vedersi riconosciuto un ruolo di primissimo piano in un’ampia area che va dal Mediterraneo centrale, dove è determinante in Libia, al Medio Oriente siriano e nord iracheno, fino all’Asia centrale, a suggello anche del ruolo ricoperto col recente intervento a favore dell’Azerbaijan contro l’Armenia.
Ma la scelta dell’11 settembre assume anche un indubbio significato simbolico a vent’anni esatti dall’abbattimento delle Torri gemelle, per il valore che la data scelta vorrebbe assegnare alla circostanza. In un certo senso, cioè, questa vorrebbe significare qualcosa di analogo al “Mission accomplished” col quale George W.Bush, il primo maggio del 2003, a bordo della portaerei Lincoln, si volle insediare solennemente nel ruolo di vincitore della guerra in Iraq e di pacificatore del Paese. Ma, come in quel caso non si tenne conto della resistenza delle formazioni jihadiste ancora in vita e che undici anni dopo portarono alla nascita dell’Isil/Isis/Is, con riferimento all’Afghanistan pare trascurarsi il fatto che l’al Qaida (che vent’anni fa era il nemico principale dell’intervento Usa e Nato) gode tutt’ora di una forma smagliante, soprattutto nelle sue varianti siriana, irachena, libica, del Sahel e del Corno d’Africa. Insomma, c’è poco da celebrare.
Il ritiro statunitense dall’Afghanistan ben difficilmente si trasformerà comunque in un’uscita assoluta dal Paese, nel quale è destinata a rimanere una significativa presenza diplomatica e commerciale, certamente integrata da una componente congrua di Force protection. Da un punto di vista puramente militare, invece, il ritiro della presenza americana dall’area potrebbe tradursi in un semplice cambio di gravitazione, laddove si consideri il ritorno dell’area euro-mediterranea al centro delle attenzioni statunitensi. In questo contesto, è certamente significativa ed allarmante la crisi ucraina che lascia trasparire il rischio di un intervento diretto russo, nonché il cambio di passo impresso alle operazioni in Siria.
Anche il nord Europa non è al riparo da questa vampata di pressioni con la rinnovata attenzione alla questione del North Stream 2 che dovrebbe sancire una maggiore dipendenza europea dal rifornimento energetico dalla Russia, non gradita a Washington. Resta, insomma, da vedere se quelle forze verranno semplicemente ritirate o non piuttosto rischierate in aree più delicate e a noi più vicine.
Infine, sono da considerare con attenzione le implicazioni di questo ritiro anche per gli altri Paesi compartecipi dell’operazione. Non saranno solo gli statunitensi a ritirarsi, infatti, ma anche una quarantina di elementi/unità/contingenti più o meno cospicui di altrettanti Paesi Nato o esterni all’alleanza. Tra questi, il nostro, presente con circa 800 uomini tra Herat e Kabul, a suggello di un impegno di due decenni in un ruolo di grande esposizione operativa, diplomatica e politica.
Per quel che ci riguarda, non dovrebbero sussistere difficoltà particolari per il ritiro, fatte salve le necessarie esigenze di bilanciamento delle componenti operativa e logistica per evitare colpi di coda ostili contro le nostre unità in deflusso, ma non c’è dubbio che si tratterà comunque di un’operazione complessa per l’intrinseca multi-modalità richiesta. A vettori aerei nazionali e Nato (questi ultimi da inserire nel più ampio sforzo a favore degli altri contingenti) si dovranno infatti aggiungere voli commerciali per il trasporto dei mezzi pesanti, da reperire in un mercato saturo e prevedibilmente ancor più intasato nei mesi a venire.
Insomma, l’Italia si troverà a breve alla fine di un impegno di oltre vent’anni in Asia centrale, dove il nostro Paese ha goduto di una grande visibilità internazionale. Le Forze armate italiane intervenute in quell’area nel 2001 si erano da poco tempo trasformate in realtà professionali, avendo abbandonato poco prima la coscrizione obbligatoria e dimostrandosi comunque pienamente all’altezza dei compiti loro affidati. In un territorio lontano e sconosciuto si sono confrontate con successo con un nemico agguerrito e con minacce nuove, a fianco del fior fiore delle unità alleate. Non hanno sfigurato, al contrario, traendo i necessari ammaestramenti da una guerra insidiosa e difficile.
Sbaglieremmo, quindi, se con l’uscita da quel Paese considerassimo l’esperienza afghana un capitolo chiuso, da riporre in archivio. Non sarebbe giusto per i costi che ci ha imposto, prima di tutto in termini di vite umane. Dovremo, invece, farne tesoro, se vogliamo essere in grado di confrontarci con un futuro che si preannuncia tutt’altro che tranquillo, anche a due passi da casa nostra.