Le lezioni politiche e militari identificate per l’Afghanistan serviranno per i nuovi scenari di operazioni in Africa. È necessario ricorrere alla storia e ai suoi insegnamenti, come quelli ereditati dall’Impero romano, che ottenne sicurezza dalle minacce da sud rafforzando i Paesi del nord Africa. Il commento del generale Pasquale Preziosa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare
Volge al termine la lunga guerra in Afghanistan iniziata dopo l’11 settembre 2001 con lo scopo di abbattere il terrorismo di al Qaeda ed eliminare la governance talebana. Dopo quasi venti anni di combattimenti, addestramenti e danni collaterali prodotti, il risultato raggiunto è stato di molto inferiore rispetto alle aspettative iniziali: l’Afghanistan verrà lasciato nelle mani dei governativi con i talebani pronti alle porte per riguadagnare la “governance” temporaneamente persa.
L’Italia, nell’ambito anche delle coalizioni internazionali, concluderà il periodo afghano con oltre 50 morti, molti feriti gravi e un costo finanziario di circa 8 miliardi di euro. I risultati politici ottenuti in Afghanistan dopo vent’anni di impegno sono risultati non all’altezza delle aspettative. In aggiunta, il terrorismo di al Qaeda si è sparso in altre zone del globo e un nuovo integralismo radicale ha preso piede (l’Isis) soprattutto in Africa. L’azione militare che doveva conquistare la mente e il cuore della popolazione afghana non ha prodotto i cambiamenti auspicati sul sistema.
Sul piano storico, gli Stati Uniti e gli alleati escono dall’Afghanistan con gli stessi negativi risultati dell’Urss nel periodo di impegno 79-89, ma con maggiori spese che hanno inciso in modo elevato sui debiti pubblici, indebolendo così i processi di competizione internazionale in atto. In Afghanistan non c’era da vincere nulla e nulla si è vinto, anche il contrasto alla produzione di oppio è stato perso. Le decisioni più appropriate sono quelle che riescono a valutare al meglio le conseguenze nel tempo e sul terreno in relazione alla storia e alla antropologia dell’area interessata. Le lezioni politiche e militari identificate per l’Afghanistan non possono essere sottaciute in presenza di nuovi scenari di operazioni in Africa.
L’Africa è un ginepraio di instabilità. Il Sahel rappresenta il “crocevia dell’instabilità africana con rivendicazioni religiose sostenute da gruppi armati affiliati ad al Qaeda legate alla marginalizzazione delle regioni settentrionali del Mali” (Ispi). Ai conflitti religiosi si affiancano anche quelli armati tra opposte fazioni dovuti a problemi etnici e politici. Il rischio di violenza nella regione è elevatissimo e dal 2010 si è manifestata la tendenza all’aumento di nuove crisi, tra le quali la ribellione Tuareg e islamista nel nord del Mali (Ansar al-Dine-Islamic State of Iraq and ash-Sham in Greater Sahara, Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslim, al-Mulathamun Battalion) e la guerriglia di Boko Haram nel nordest della Nigeria.
Storicamente, gli attentati di Al Qaeda iniziarono nel 1998 proprio a Nairobi e con le rivoluzioni arabe del 2011 in Africa si sono diffusi anche gli affiliati dello stato islamico di Abu Bakr Al Baghdadi. Nel Mali, il 94% della popolazione (20 milioni circa) è di fede musulmana con più di dieci gruppi etnici, 13 lingue locali oltre a quella ufficiale francese. L’ultimo colpo di stato (cinque totali dal 1960) è avvenuto nella recente estate del 2020. In questa regione, grande più di quattro volte l’Italia, dove il rischio di malattie infettive è definito molto alto, l’identità e il radicalismo islamico hanno giocato un ruolo importante nella spinta alla mobilitazione armata per la contrapposizione di interessi anche locali.
Nella regione c’è l’impegno dell’Onu, dal 2013 con l’operazione Minusma con risultati non ancora visibili, dell’Unione europea con l’Operazione Eutm-M per l’addestramento delle forze armate, percepita dai locali “too theoretical”. La missione antiterrorismo francese (che ha già riportato 50 vittime), denominata Barkhane, sta perdendo il supporto della popolazione maliana, peraltro l’impegno francese in Mali sta alimentando dibattiti interni alla Francia sulla convenienza politica e militare a continuare la missione in considerazione dei pochi risultati raggiunti. Secondo alcuni partiti politici maliani, “solo il popolo del Mali può porre fine al conflitto in atto”.
La situazione del Mali, quindi, risulta ricalcare quella dell’Afghanistan all’inizio della “Global war on Terrorism”. Alcuni analisti hanno definito il Mali il “nuovo Afghanistan” dell’Africa. Circolano informazioni per una nuova operazione europea denominata “Takuba” per il contrasto delle cellule jihadiste nella regione del Sahel, Mali compreso, nel solco dell’operazione Barkhane già in atto. La Germania e la Spagna non hanno aderito all’invito, mentre l’Italia sembrerebbe disposta all’impiego delle forze speciali, si dice per il mentoring, in comunione con quelle francesi, promotrici dell’iniziativa. La zona di operazioni viene definita dagli analisti di settore “epicentro del Jihad globale”.
Peraltro, per il contrasto del iihadismo sono ancora in corso in alcune aree dell’Iraq e della Siria, operazioni militari da parte di una grande coalizione con molte potenze coinvolte i cui risultati non appaiono né certi né ancora definitivi. L’apertura ora di un‘altra operazione di contrasto al Jihadismo con la partecipazione di un numero di Paesi e di forze minimali fa sorgere alcuni dubbi sulla efficacia della strategia globale per combattere il fenomeno terroristico.
L’Italia, in particolare, dovrebbe interrogarsi, dopo l’Afghanistan e con la pandemia ancora in corso, sulle linee da seguire per garantire livelli di Sicurezza nazionale adeguati al nuovo quadro mondiale che vede una competizione strategica molto impegnativa per vincere il futuro. La stabilizzazione del quadro internazionale non sarà priva di sorprese. È necessario ricorrere alla storia e ai suoi agli insegnamenti, soprattutto quelli ereditati dall’antico Impero romano per le minacce provenienti da Sud. La sicurezza dell’Impero fu ottenuta rafforzando i Paesi del Nord-Africa e non disperdendo gli sforzi in zone di poco interesse commerciale o strategico.
La Libia, la Tunisia e l’Algeria, solo per citarne alcuni, sono i paesi di interesse strategico per la sicurezza non solo dell’Italia ma per l’intera Europa. Le operazioni militari, anche se di pace hanno costi molto elevati, anche per i Paesi del G7 che dopo la pandemia hanno dovuto innalzare il debito pubblico a livelli mai visti prima. Le operazioni militari hanno costi certi, ma ritorni incerti. Il Mali rappresenta il nuovo “pantano di guai” nel quale non infilarsi per non lasciare in eredità alle prossime generazioni non solo un grosso debito finanziario, ma anche un debito strategico in politica estera.