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Andrea Romano e il dramma di chi resta. L’analisi di Colombo (Unibo)

Il caso sollevato da Andrea Romano, i ritardi nelle tumulazioni e le negligenze dell’amministrazione. Lo specchio di un Paese che ha impedito l’estremo saluto a decine di migliaia di persone. Conversazione con il sociologo Asher Daniel Colombo, docente universitario all’Alma Mater di Bologna, che nel suo libro racconta le cicatrici lasciate dalla pandemia a coloro che “sono rimasti”

Appunti per il dopo. Nel dramma della pandemia, c’è un dramma ancora più pesante che riguarda coloro che restano. Le famiglie delle vittime a cui è stato impedito di piangere il proprio caro o di non poterlo tumulare. E’ un problema di civiltà, di ossa che biancheggiano in anonimi magazzini. Oppure, come nel caso sollevato dal deputato Pd Andrea Romano, le ceneri dei morti vengono accatastate per due mesi, senza trovare pace, a causa di ritardi e negligenze. Per capire la portata del fenomeno e le cicatrici che questa situazione ha lasciato fra le persone, Formiche.net ha parlato con Asher Daniel Colombo, docente universitario all’Alma Mater di Bologna, approdato recentemente nelle librerie con il suo “La solitudine di chi resta. La morte ai tempi del contagio” (il Mulino).

Professore, lei ha raccolto storie, numeri, fatti di vita vissuta sulla pelle di chi è rimasto. Cosa pensa del caso legato al figlio del deputato Andrea Romano?

È una storia drammatica, nella quale intervengono diversi fattori. Da un lato l’ingorgo che si è venuto a creare in virtù della crescita spaventosa di mortalità per via della pandemia. Dall’altro, un sistema di gestione dei servizi cimiteriali, già evidentemente in crisi, che si è definitivamente bloccato.

In questo Paese si fa sempre fatica a identificare un responsabile. Eppure il deputato ha puntato il dito contro la sindaca della capitale Virginia Raggi.

È evidente che le criticità di gestione dipendano da un indirizzo amministrativo che è in capo al Comune. Quello che in un certo senso trovo più singolare, ad ogni modo, è la risposta che ha dato Ama. Definendo “non urgente” il trasferimento delle ceneri di questo ragazzo, si evidenzia una certa sottovalutazione dell’importanza che il rito ha ancora nella nostra società. Trasferire un’urna dal deposito al cimitero non è come spostare un pacco di Amazon: è un’operazione che ha una valenza emotiva e sociale altissima. Quello che è successo a Romano è l’esempio più drammatico di quanto è successo durante tutta l’emergenza pandemica: la completa sottovalutazione della solitudine di chi resta. Non c’è dubbio, tuttavia, che il settore cimiteriale negli anni abbia subito profondi mutamenti.

 A che cosa si riferisce?

Ad esempio al fatto che la richiesta di cremazioni, a partire dagli anni Duemila, sia clamorosamente schizzata. E, spesso, le istituzioni non sono state in grado di gestire questa richiesta e di soddisfare i bisogni delle persone. Tanto più che i centri di cremazione sono concentrati in particolare al Nord, pochi al Centro e pressoché assenti al Sud.

Da un punto di vista “sociale”, questa totale privazione del rito del commiato, a suo giudizio, che cosa lascerà?

Il sequestro di queste pratiche, della possibilità di svolgere il commiato, è un aspetto che ha profondamente segnato la società del nostro tempo. E, paradossalmente, nei momenti di crisi come questo, emerge ancora più forte l’esigenza di affidarsi alla certezza dei riti: dall’ultimo saluto alla sepoltura. La sepoltura è un aspetto fondamentale, perché sancisce la separazione fisica (oltre che visiva) tra i familiari e il defunto. È il modo di chiudere una ritualità dal punto di vista sociale. Se si viene privati di questo, si rimane in balia di un senso di totale incompiutezza.

Secondo lei perché questo aspetto è stato sottovalutato dai governanti?

Mi viene da dire che dovessero pensare ai vivi, malati, più che ai morti. Penso tuttavia che non sia una caratteristica delle istituzioni, più in generale, temo sia diffuso pensare che questo tipo di ritualità abbia perso di importanza e che quindi se ne possa fare a meno. Invece, i racconti che ho raccolto nel libro mostrano l’esatto contrario.

Come ha proceduto alla stesura del suo saggio?

Per la verità ho messo assieme più fonti. Dalla la di un caso avvenuto in un ospedale del centro nord, alle interviste a infermieri, medici, pazienti, responsabili delle camere mortuarie, impresari di pompe funebri e cappellani degli ospedali. Il fulcro della mia ricerca è stato cercare di capire come sono stati gestiti i decessi. In più, ho analizzato sistematicamente i necrologi del Corriere della Sera e dell’Eco di Bergamo.

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