In Afghanistan non abbiamo vinto, ma ciò che ci è stato chiesto lo abbiamo fatto, e anche di più. La nostra coscienza è pulita, abbiamo insegnato qualcosa, riacceso qualche speranza e lasceremo laggiù un buon ricordo della nostra Italia. È stato seminato bene, e nei cuori di quella gente lontana qualcosa di bello finirà per germogliare. Il commento del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa
Ho letto e riletto più volte il comunicato stampa rilasciato dalla Nato a conclusione della laboriosa giornata di ieri, 14 aprile 2021. Laboriosa perché in una prima fase il segretario generale Jens Stoltenberg ha dato il benvenuto, in “presenza”, al segretario di Stato Usa Antony J. Blinken e al capo del Pentagono Lloyd J. Austin III, incontrati per la seconda volta Bruxelles in questo scorcio di aprile. Subito dopo, nella seconda fase, ha incontrato in “virtuale” i ministri degli Esteri dell’Alleanza, per la ministeriale che storicamente si svolge in questo periodo dell’anno dopo quella con i ministri della Difesa.
Ho letto più volte, dicevo, perché il testo del comunicato, in tutto cinque brevi paragrafi, mi sembrava piuttosto banale per essere l’annuncio di un evento, il rientro dall’Afghanistan della Resolute Support (e quindi di tutte le forze straniere della Coalizione), atteso da almeno dieci dei vent’anni in cui americani e alleati sono schierati nell’area. Poi ho capito che il comunicato andava letto in parallelo alla sintesi, sempre rilasciata dall’ufficio stampa, degli indirizzi di saluto scambiati in prima fase tra Jens Stoltenberg e Antony Blinken. Qui si comprende subito che nella ministeriale l’argomento Afghanistan, pur da approfondire nelle riunioni di Ankara (il seguito di quelle condotte a Doha) sarà solo un dettaglio, posto come marginale all’ombra del vero problema, ovvero la possibile reazione americana all’ammassamento di truppe russe ai confini con l’Ucraina.
Quindi, un problema maggiore a fronte di uno minore, ormai dato per scontato e da perseguire con ordine e in coordinamento. In altre parole, intenzionalmente il problema maggiore (che preoccupa la politica) accantona quello che forse più preoccupa l’elettorato americano (che ancora ricorda il Vietnam, con la disordinata fuga da Saigon). Da non ripetersi, e comunque azione da enfatizzare solo a cose fatte. Puntuale, infatti, a dimostrazione di quanto appena osservato, oggi è stato fatto circolare il comunicato sull’annuncio del NAC (North Atlantic Council), dove si assicura che l’Alleanza supporta in tutto e per tutto la decisione degli Stati Uniti di dare concrete risposte alle ripetute azioni destabilizzanti della Russia, “inclusa la violazione della sovranità di Ucraina, Georgia e relativi territori”.
Ubi maior… La questione Afghanistan, allora, va considerata chiusa, visto che sembriamo tutti pronti ad aprirne un’altra? Assolutamente no, e non abbiamo alcuna certezza su come andrà a finire. A questo proposito, è doveroso riconoscere che gli sherpa sono stati bravissimi a banalizzarla nella redazione del comunicato, utilizzando largamente le proprietà anestetiche delle cose già dette, delle frasi già fatte e quelle soporifiche del “politicamente corretto”. Non c’è una virgola fuori posto perché il pubblico non si senta rassicurato che nel drawdown (“uscita”, non “ritiro”) dal territorio andrà tutto bene. Hanno solo un momento di dubbio quando concedono che durante il withdrawal (è l’unica volta in cui usano la parola “ritiro”) potrebbe essere necessario rispondere con la forza ad eventuali attacchi dei talebani.
Le problematiche del ritiro sono di tre ordini: diplomatiche, logistiche e politico-strategiche. Quelle diplomatiche riguardano il fatto che le autorità statunitensi (prima Trump e poi Biden) dialogando con talebani e governo afghano prima a Doha, poi ad Ankara, investono di autorità, prima ancora che di responsabilità, due attori del mondo musulmano che più di altri, sinora, hanno dimostrato una sorta di tolleranza sia verso al-Qaeda, sia verso l’Isis. Se avranno successo, prima o poi presenteranno il conto. Non è poi detto che i talebani accettino di buon grado, da un lato, il ritardo di quattro mesi nel completamento del ritiro e, dall’altro di combattere davvero al-Qaeda. Se è vero che odiano l’Isis, avendo questo finalità ecumeniche di dominio, hanno invece affinità ideologiche con al-Qaeda, cui li accomuna l’odio per l’Occidente. Anche l’esfiltrazione dei collaboratori e interpreti afghani, nei cui confronti i Paesi della Coalizione si sentono eticamente impegnati, potrebbe essere fonte di nuovi problemi.
Sotto il profilo logistico, le forze si trovano in situazioni geografiche “chiuse”, con il mezzo aereo che in determinate condizioni può rappresentare l’unica risorsa disponibile, o noleggiabile. Ma in quanto a logistica, se non ci sono interferenze politiche, i militari conoscono benissimo il loro mestiere e, come sempre, se la caveranno senza danni. Sono dieci anni che si parla di rientro, e certamente i Paesi della Coalizione hanno già pronti i piani per tutte le categorie di mezzi non convenientemente trasportabili via terra e via mare, specie in condizione di contrasto, al momento ancora non escludibili. In quanto alle problematiche d’ordine politico–strategico, per quanto il comunicato cerchi per quanto possibile di attenuarle, se non di stravolgerle, esse avranno a lungo conseguenze sulla credibilità dell’Occidente.
Per quanto si cerchi in tutti i modi “un’arrampicata sugli specchi”, in vent’anni di attività costose, impegnative e con dolorose perdite, la Coalizione non esce dall’Afghanistan vittoriosa. “Mission accomplished”, missione compiuta? Assolutamente no. Per quanto, anche nel comunicato, si cerchi di girarci attorno, nessuno degli obiettivi iniziali, e nemmeno quelli fissati quando ci siamo accorti che conseguire i primi sarebbe stato impossibile, è stato davvero conseguito. L’Afghanistan per ora resta quello che è, per ritornare rapidamente ad essere quello che è sempre stato.
Sono però d’accordo con il generale Marco Bertolini (qui la sua analisi), che di Afghanistan e di operazioni audaci se ne intende: abbiamo acquisito un’esperienza enorme, che va capitalizzata e non gettata alle ortiche. Abbiamo dato, ma sotto il profilo umano e militare abbiamo anche avuto molto in termini di coesione, di capacità e di esperienza. A tutti i livelli. Ci sarà perfino qualcuno, forse saranno anche tanti, che dell’Afghanistan avrà nostalgia. Non rammarichiamoci.
Non abbiamo vinto, ma ciò che ci è stato chiesto lo abbiamo fatto, e anche di più. La nostra coscienza è pulita, abbiamo insegnato qualcosa, riacceso qualche speranza e lasceremo laggiù un buon ricordo della nostra Italia. È stato seminato bene, e nei cuori di quella gente lontana qualcosa di bello finirà per germogliare.