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Autonomia tech (dalla Cina). Il piano di Biden per i microchip

Al centro del progetto del presidente Usa, oltre a infrastrutture, salute e lavoro ci sono i semiconduttori. Il duplice obiettivo: rivitalizzare la manifattura high-tech significa una maggiore resilienza in questa supply chain strategica rispetto alla Cina e mantenere la leadership nell’innovazione. Mentre Europa e Italia…

L’annuncio del Presidente Joe Biden durante il discorso di Pittsburgh mercoledì scorso dell’American Jobs Plan da circa 3 trilioni di dollari, volto a ricostruire l’intera nervatura infrastrutturale americana, ha certamente segnato un punto di svolta. Tante le indicazioni fornite sulle future voci di spesa, tra cui salute, lavoro, istruzione, imprese, produzione e soprattutto tecnologia.

“La manifattura americana è stata l’Arsenale della democrazia nella Seconda guerra mondiale e deve essere l’Arsenale per la prosperità americana oggi”, si legge nella nota sul sito della Casa Bianca. “Dall’invenzione del semiconduttore alla creazione di Internet, i motori della crescita sono stati concepiti grazie ad investimenti pubblici che supportano ricerca, commercializzazione e filiere robuste”.

In questo passaggio del discorso, emergono con chiarezza gli elementi chiave di quella che sembra delinearsi come la strategia dell’amministrazione per il rilancio tecno-industriale degli Stati Uniti: da una parte gli strumenti a supporto, ovvero gli investimenti pubblici e un maggior presidio delle agenzie federali delle filiere critiche come annunciato con l’Executive Order di fine febbraio, dall’altra l’individuazione dell’asset strategico per le tecnologie presenti e del futuro: i microchip.

Seppur ancora poco dettagliata, la proposta di Biden per l’industria dei semiconduttori prevede: lo stanziamento di 50 miliardi di fondi, tra incentivi e finanziamenti, per rafforzare la produzione domestica; la creazione di un National Semiconductor Technology Center come hub per l’innovazione intersettoriale (laboratori universitari, imprese e agenzie federali); rilanciare la spesa federale in R&D, in fase declinante come percentuale rispetto al prodotto interno lordo, per competere ad armi pari rispetto agli investimenti della Cina, soprattutto nel settore dei chip.

Alcune di queste proposte, che erano già state in parte raccolte nel CHIPS for America Act approvato al Congresso a febbraio di quest’anno e incluso nel National Defense Authorization Act, anche se non prevedeva investimenti pubblici, vedono coagulare differenti interessi: da quelli bipartisan di Capitol Hill – con democratici e repubblicani uniti dalla sfida alla leadership tecnologica statunitense posta da Pechino – fino al Pentagono che vede la dipendenza dalle forniture estere di componenti così critiche una minaccia alla sicurezza nazionale.

Non solo: anche il recente rapporto della National Security Commission on Artificial Intelligence rilevava come mantenere una leadership tecnologica nei chip logici all’avanguardia rappresenti un elemento cruciale per l’AI e il quantum computing, oltre alle misure necessarie per mitigare le vulnerabilità lungo la supply chain.

“Si tratta di superare la Cina” ha dichiarato il Segretario al Commercio Gina Raimondo, “se agiamo ora […] C’è tempo per farlo, per ricostruire, nel settore dei semiconduttori in particolare” dal momento che si tratta dei “fondamenti dell’economia digitale del futuro”. Ma vi è anche la pressione del settore privato, la cui voce è rappresentata dalla potente Semiconductor Industry Association (SIA). Secondo John Neuffer, suo Presidente e Ceo, l’iniziativa di Biden di investire con ambizione “nei lavoratori, nella manifattura e nell’innovazione dell’industria americana dei semiconduttori” rappresenta un forte impulso nel “promuovere la competitività globale americana nei microchip e in tutte quelle tecnologie essenziali che ne beneficiano”.

Seppur con nuove foundries, posti di lavoro specializzati e più ricerca di base, il piano di Biden tuttavia sembrerebbe complementare, più che subordinare, le esigenze e la visione del settore privato. Come testimonia la nuova strategia aziendale di Intel, in un contesto di mercato e di rischi geopolitici che rischiano di corrodere la leadership americana nel settore.

La natura fortemente integrata a livello globale della catena del valore rende qualsiasi ipotesi di politica industriale volta a raggiungere l’auto-sufficienza fortemente velleitaria. Come rivela l’ultimo rapporto targato SIA e Boston Consulting Group, uno rapido sguardo alla specializzazione geografica delle regioni coinvolte ben illustra le preoccupazioni di sicurezza dell’establishment americano e i limiti economici di una completa autonomia.

Ad oggi gli Usa oggi guidano il settore privato in R&D negli stadi a più alta intensità di know-how: Electric Design Automation, IP, design e creazione dell’equipaggiamento all’avanguardia per la produzione dei chip.

Come conseguenza, a dominare sono player IDM, come Intel, e fabless come Qualcomm e Nvidia: la prima produce parte dei suoi chip in loco, mentre le altre due appaltano la produzione a fab come TSMC. Considerando la prevalenza di questo business model, le aziende statunitensi ad oggi catturano il 38% del valore aggiunto globale mentre gli Usa contano per il 25% del consumo mondiale di chip. Inoltre, insieme all’Europa gli Stati Uniti sono tra i principali depositari di “brevetti triadici”, ovvero quelli più sintomatici di innovazione e commercializzazione.

A fronte di ciò, la perdita di capacità produttiva – una scelta che ha consentito di scalare la catena del valore, contribuendo così a globalizzare il settore in seguito ai World Trade Organization’s Information Technology Agreements del 1997 – nel contesto geopolitico di oggi costituisce una vena scoperta. La quota americana nella manifattura di chip è scesa dal 37% del 1990 al 12% di oggi.

La regione asiatica (inclusi Giappone, Taiwan e Corea del Sud e in parte la Cina) controlla il 75% della produzione globale di semiconduttori. Non solo: la capacità di fabbricare chip all’avanguardia (sotto i 10 nanomentri) oggi è distribuita tra Corea del Sud (8%) e Taiwan (92%), dalle cui forniture dipenderanno le tecnologie di frontiera come l’AI, 5G e l’IoT.

Più in generale, il vantaggio comparato delle fabs asiatiche è dovuto principalmente a politiche fiscali e sussidi pubblici: il reshoring costerebbe, per singola unità produttiva, tra il 25 e il 50% in più negli Stati Uniti. Con le attuali condizioni di mercato e di forte spinta del governo, le proiezioni vedono inoltre la Cina aumentare la sua quota al 40% entro il 2030.

Considerando che i semiconduttori sono il 4 bene più commerciato al mondo (solo nel 2019 tale mercato valeva 1,7 trilioni di dollari), con 120 paesi coinvolti, e che le aziende coinvolte investono il 22% e il 26% delle vendite rispettivamente in R&D e in capital expenditure, scenari di “autarchia” regionale spinti dalle continue frizioni Usa-Cina e dai rischi di un’eccessiva concentrazione della produzione potrebbero includere: un aumento del 35-65% dei costi dei chip e investimenti tra i 900 e 1,225 miliardi di dollari per sostenere la domanda del 2019.

L’alternativa, quella che la Sia identifica come “un approccio guidato dal mercato focalizzato sui rischi critici e strategici” ben si allinea alla proposta di Biden: la garanzia del governo di un programma da 20-50 miliardi di incentivi fiscali che potrebbero consentire la costruzione di 19 nuovi siti di produzione nel prossimo decennio, sufficienti a garantire una “capacità minima sostenibile” per consolidare la leadership tecnologica americana.

Una strategia europea, in cui l’Italia possa fare la sua parte, per l’autonomia strategica sui semiconduttori dovrebbe tenere conto di questa realtà al netto degli investimenti pubblici. Innanzitutto, creando mercati end-use per microchip all’avanguardia, oltre al già consolidato settore automotive.

La presenza di economie di scala ‘autoctone’ potrebbe essere un prerequisito per garantire le entrate sufficienti per sostenere il ritmo di investimenti del settore; mitigare i rischi dell’interdipendenza, dal momento che attualmente la rete che lega la tecnologia americana – dal design all’utilizzo dei macchinari Euv per la fabbricazione dei chip – all’industria elettronica in Cina e nell’Asia meridionale rende quest’ultime un inevitabile mercato di sbocco per tutti gli attori coinvolti nel mercato dei semiconduttori.

Dato il contesto di tensioni geopolitiche, un asse di mercato transatlantico potrebbe rappresentare una soluzione per rafforzare la capacità produttiva, e dunque la sicurezza delle forniture, e al contempo ottemperare ai vincoli strutturali che richiede l’innovazione in questo settore: per mantenere il passo della Legge di Moore.


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