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Biden riparte da Bruxelles. Stefanini legge l’agenda del vertice Nato

Sono finiti i tempi in cui la Nato poteva chiudersi nel guscio euro-atlantico. Il prossimo 14 giugno, Biden ribadirà a Bruxelles che “America is back”, ma chiederà più impegno agli europei, anche sulla Cina. L’analisi dell’amb. Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica e rappresentante permanente dell’Italia alla Nato

Il vertice Nato del 14 giugno è al centro del blitz europeo di Joe Biden. Non se ne conosce ancora l’intero programma oltre il G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia, e il successivo passaggio a Bruxelles che sicuramente toccherà anche le istituzioni europee. Per un presidente americano che rilancia vistosamente le relazioni transatlantiche la Nato è una tappa obbligata, non unica: l’Ue è un interlocutore chiave su clima, cyber, Cina. Ma il vertice è ancora più importante per l’Alleanza. Il vertice che aspettava da quattro anni (come il risveglio da un brutto sogno) segnerà una svolta. Salvo crisi dell’ultim’ora, pensando soprattutto all’Ucraina, non aspettiamoci però novità immediate, tangibili. Questo vertice sarà un punto di partenza.

Riaffermerà naturalmente i punti fermi dell’Alleanza, solidarietà, deterrenza nei confronti della Russia, porta aperta all’allargamento. Le candidature di Georgia e Ucraina, e l’indeterminata promessa di adesione fatta a Bucarest nel 2008, rimangono sul tavolo per inerzia ma senza accelerazioni. Quali che siano le linee rosse tracciate da Vladimir Putin, che non le ha specificate, alla Nato non ci sono disegni per attraversarle. Nel menu del vertice non ci sono novità georgiane o ucraine, a meno che non siano improvvide iniziative dello stesso presidente russo a mettercele. Il ritiro della mobilitazione russa ai confini dell’Ucraina, se confermato nei fatti, rassicura la Nato. Che ha anche altre cose cui pensare.

Il mondo è cambiato. Negli ultimi trent’anni la Nato ha dimostrato un’invidiabile agilità nell’adattarsi alle sfide del dopo-guerra fredda, Balcani, allargamento, Afghanistan, partenariati. Deve ora affrontare un contesto internazionale diverso, dominato da due fattori: geopolitica delle grandi potenze rivali e concorrenti; sfera delle minacce globali alla sicurezza, dalle pandemie ai cambiamenti climatici. Deve diventare più politica, perché le sfide non sono tutte né militari, o lo sono in parte, né territoriali, o impongono di guardare fuori dall’area euro-atlantica. Deve cambiare di nuovo pelle. Non sostanza, che rimane imperniata sulla sicurezza come bene comune e indivisibile. Corollario, la solidarietà.

Il vertice del 14 giugno è importante per gli alleati europei. Coglie una Nato in transizione anche per i “dopo” interni: dopo-Trump; dopo-Brexit; dopo-Afghanistan, impegno durato vent’anni. Quest’ultimo, a ritiro probabilmente avviato, sarà toccato brevemente. Del recente passato non si parlerà ma ci si penserà. La colonna sonora del vertice sarà invece il ritorno degli Stati Uniti alla politica transatlantica: “America is back”. Il messaggio del Presidente americano sarà forte e chiaro. Gli alleati lo hanno già ascoltato in ben tre ministeriali negli ultimi tre mesi. Ora devono metabolizzarlo: è la chiave di volta del vertice.

Ma l’America se ne era veramente andata? Militarmente no. Politicamente sì. Il “ritorno” è qualcosa di cui europei e canadesi devono prendere le misure, fra continuità, come l’Afghanistan, e discontinuità, come l’archiviato ritiro dalla Germania. L’impegno a spendere il 2% del Pil per la difesa rimane sul tavolo – è pre-Trump comunque – senza essere martellato a piè sospinto. In compenso l’America di Biden chiede agli alleati di assumere più responsabilità. Il ritorno significa che gli europei, anche il piccolo Montenegro, possono contare sulla garanzia inossidabile dell’Articolo 5 del Trattato di Washington. Il risvolto è che gli americani devono poter contare sugli europei su due direttrici: la sicurezza del vicinato, specie mediterraneo e africano, come fa la Francia in Mali, e potrebbe toccare all’Italia in Libia; la “sfida generazionale”, nel linguaggio di Washington, posta dalla Cina.

Sono finiti i tempi in cui l’Alleanza poteva richiudersi nel suo guscio euro-atlantico e facendo affidamento sull’arrivo della cavalleria americana.Arriverà ma intanto bisogna rimboccarsi le maniche anche da questa parte dell’Atlantico. Venuto meno l’alibi “con questa Washington – di Donald Trump – non si può collaborare”, con quella di Joe Biden si lavora insieme, vedi Iran, vedi cambiamenti climatici, vedi tassazione globale. Difesa europea? Benissimo, ma parlarne di meno e fare di più.

Mentre gli Stati Uniti si preparano ad affrontare sfide di lungo periodo, un vertice a caldo non può improvvisare l’adattamento dell’Alleanza ma può avviarlo. La Nato ha bisogno di dotarsi di un nuovo concetto strategico. Quello attuale, del 2010, rispecchia un mondo diverso. Le basi ci sono già, nel rapporto Nato 2030 di dieci “saggi” fra cui l’italiana Marta Dassù, approvato dai Ministri degli Esteri. Nel nuovo concetto strategico spunterà la Cina (“concorrente sistemico”) ma anche il partenariato strategico con l’Ue, il clima, le nuove tecnologie, il cyber come arma d’interferenza politica.

Il processo per arrivarvi sarà tenuto a battesimo il 14 giugno e durerà circa un anno. Si concluderà con un nuovo vertice l’estate prossima. Sarà il canto del cigno del segretario generale uscente, Jens Stoltenberg, il cui mandato scade il 30 settembre 2022. Dopodichè il testimone della nuova Nato “2030” passerà a un nuovo segretario generale.


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