La reazione della politica alla SuperLega ci ha ricordato che i club di calcio sono oramai soggetti istituzionalizzati di pubblica utilità, cerniere di collegamento del privato al pubblico. Chi ne detiene il controllo e le governa ne deve tenere conto. L’analisi di Igor Pellicciari, docente Università di Urbino e Luiss Guido Carli
Per l’incipit di un’analisi sulla SuperLega di calcio torna utile l’avvertenza in apertura dell’articolo sull’incredibile presa del Campidoglio di Gennaio 2021 .
Quando una notizia ottiene una eco cosi generale che sorge il dubbio se uscire allo scoperto con un commento a caldo oppure procedere con cautela prima di esprimersi a riguardo.
Il rischio in agguato nel primo caso è di un evidente azzardo nell’indovinare la questione; nel secondo di unirsi al monotono coro della messa cantata all’unisono dal mainstream.
Terza dignitosa via d’uscita è di soffermarsi su aspetti meno trattati, che permettano all’osservatore di ragionare su argomenti a lui poco noti (il governo del calcio) da una prospettiva che gli è familiare (istituzioni politiche e relazioni internazionali). Senza esprimere un giudizio di merito sulla SuperLega (l’opinione del tifoso qui è irrilevante e fuorviante).
La prima considerazione è di ordine geo-politico. Che il calcio sia diventato primario vettore di politica estera lo dimostra l’importanza assoluta che ha assunto l’organizzarlo prima ancora che il giocarlo. Mentre si fatica a trovare chi è disposto ad ospitare le Olimpiadi, per competizioni internazionali calcistiche la corsa tra i pretendenti è senza esclusione di colpi (anche illeciti, a leggere le vicende giudiziarie di Sepp Blatter e Michael Platini).
E’ uno scontro tra Federazioni sportive con back-up diretto dei Governi interessati.
Organizzare un Europeo o un Mondiale di calcio è tra i pochi eventi sportivi ancor convenienti politicamente ed economicamente, come dimostra l’ultimo torneo iridato giocato in Russia, di gran lunga più utile dei costosi giochi olimpici di Sochi del 2014, andati in pesante rimessa e oscurati all’epoca dalla crisi ucraina.
Che poi nel caso della SuperLega si voglia leggere la predominanza di club inglesi come una conseguenza della Brexit o l’assenza di quelli tedeschi e francesi come un riproporsi del consueto asse Berlino-Parigi in chiave europea, può essere una forzatura – ma il fatto che sia ipotizzabile dice del surplus di significati geo-politici di cui si carica il momento sportivo.
La seconda considerazione è di puro ordine internazionale e colloca la vicenda nella più volte ricordata crisi del multilateralismo e delle sue istituzioni, pre-esistente al Covid ma da questo accelerata e messa in luce con disarmante chiarezza.
Il gap di governance e legittimità di FIFA e UEFA ricorda quello di molte Organizzazioni Internazionali di questi tempi (dall’IOM all’OMS per dire solo delle più evidenti).
I sintomi sono gli stessi: proliferazione burocratica ridondante elitaria ed auto-referenziale, conflitti di interesse interiorizzati, dipendenza cronica dai propri azionisti di riferimento (in questo caso non Stati sovrani ma grandi club di calcio).
Non sorprende che mentre singoli paesi vanno in ordine sparso su approvvigionamento dei vaccini, gestione dei confini e dei migranti, programmazione turistica estiva – alcune loro squadre di calcio osino muoversi nel bilaterale – scavalcando il loro livello multilaterale di riferimento.
Se il progetto SuperLega fallirà, lo si deve non alla reazione europea dell’UEFA e ad una retorica moralista tipica dell’ argomentare di parte (“buoni vs cattivi”, “avidi vs idealisti”) – ma alla netta presa di posizione di leader nazionali (da Boris Johnson a Emmanuel Macron a Mario Draghi) in difesa dell’ordinamento calcistico attuale. Sono mossi non tanto dalla preoccupazione della nascita di una SuperLega europea quanto del soccombere dei propri campionati nazionali, con contraccolpi economici, sociali e politici talmente a cascata da essere incalcolabili.
La considerazione finale è di ordine politico-istituzionale e prende spunto proprio da questa difesa degli Stati-Nazione all’establishment UEFA. Inaspettata ed irrituale, secondo il precetto della obbligatorietà dell’indipendenza dello Sport dalla Politica, mantra ripetuto al punto di essere dogma.
Eppure, nello scendere in campo a difesa del calcio, la politica si oppone alla gestione con logiche privatistiche di realtà che sono giuridicamente private ma il cui ruolo sociale è talmente cresciuto da maturare risvolti di interesse collettivo, di cui un Esecutivo deve tenere conto.
Paradossalmente per John Elkann è stato più facile portare via dall’Italia e internazionalizzare la FIAT di quanto lo sarebbe per Andrea Agnelli fare lo stesso con la Juventus.
Il secondo trasloco avrebbe un impatto sociale molto maggiore e lascerebbe la sensazione di uno sconfinamento del privato nell’area di competenza della dimensione politico-istituzionale nazionale. Simile a Twitter che decide di bannare Donald Trump mentre è ancora Presidente degli USA. Giuste o sbagliate che siano, sono decisioni prese in autonomia dal privato sul pubblico e creano dei precedenti che provocano una reazione dei livelli politico-istituzionali, destinata a crescere col tempo.
Facendo addirittura ipotizzare a qualcuno di nazionalizzare quei social media a tal punto diventati parte integrante della vita collettiva da richiedere logiche di gestione e garanzie da servizio pubblico.
La reazione della politica alla SuperLega ci ha ricordato che i club di calcio sono oramai soggetti istituzionalizzati di pubblica utilità, cerniere di collegamento del privato al pubblico al pari ad esempio dei partiti politici. Chi ne detiene il controllo e le governa ne deve tenerne conto, viste le somiglianze tra le due realtà.
Con un po’ di fantasia, i militanti di un partito politico ricordano infatti i tifosi di una squadra di calcio. Entrambi ci credono e ci mettono l’anima, gratuitamente. I leader partitici invece sembrano spesso dei calciatori. Svolgono il proprio lavoro – ma come una professione.
E, se serve, cambiano squadra.