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Quanto vale l’agroalimentare italiano? Leggere il report Cdp per credere

La filiera non solo è uscita meno ammaccata di altre dalla pandemia, ma con pochi e mirati investimenti si possono ottenere grandi risultati. Il caso del Recovery Plan insegna

Il cuore pulsante dell’Italia è a tavola. La filiera agroalimentare estesa, intesa come comparto agricolo, industria alimentare e distribuzione rappresenta il primo settore economico del nostro Paese, con un fatturato di oltre 500 miliardi di euro e quasi 4 milioni di occupati. Una forza d’urto capace di rivelarsi immune, o quasi, anche alla terribile pandemia che ha devastato le economie del globo.

Al punto che il settore agroalimentare ha subito ad oggi una contrazione del 4% in termini di valore aggiunto su base annua. Eppure c’è bisogno di un rilancio, come suggerisce il report La sfida della sostenibilità per la filiera agroalimentare italiana, curato da Cdp Think Tank, il pool di economisti, coordinati da Andrea Montanino, di Cassa Depositi e Prestiti.

Per l’agroalimentare italiano “c’è spazio per una ripartenza dinamica, facendo leva sulle eccellenze, anche in termini di sostenibilità. Le evidenze mostrano che la filiera agroalimentare italiana presenta infatti alcuni risultati incoraggianti in termini di sviluppo sostenibile, testimoniando un’attenzione crescente alla gestione dei rischi e delle opportunità derivanti dai cambiamenti in atto a livello globale”, spiegano gli economisti di Via Goito.

Il punto è proprio questo. L’agroalimentare è vincente per natura, ma non per questo non bisogna mettere a punto politiche a suo sostegno. “Si pensi al recupero di produttività che il settore ha registrato negli ultimi anni (+30% dal 2010 al 2019), pur in assenza di specifiche misure di sostegno dell’attività di R&S, a fronte di un’attenzione globale crescente alla sicurezza alimentare e ad una produzione e diffusione del cibo più efficiente. Traguardi interessanti anche quelli raggiunti sul fronte dell’agricoltura biologica, grazie alla diffusione delle Organic Farm come modello produttivo alternativo, con un grado di diffusione superiore alla media europea (15% vs 7,5%)”.

E proprio in questa direzione, dovrebbero essere compiuti ancora sforzi significativi, per esempio nell’aumento dell’utilizzo di fonti rinnovabili nel mix di produzione e consumo, oppure nell’ulteriore riduzione delle emissioni inquinanti e anche in una maggiore attenzione al tema del consumo e dell’erosione del suolo e delle risorse idriche.  Perché “il significativo rilancio degli investimenti che riguarderà il Paese nei prossimi anni sarà un’occasione imperdibile per superare alcune fragilità strutturali che permangono nel settore – dal nanismo imprenditoriale, alla scarsa vocazione all’export del Mezzogiorno, fino alla sfida generale dei processi di digitalizzazione – e soprattutto per avviare un percorso di sviluppo di lungo periodo sempre più orientato alla sostenibilità”.

Un esempio? Si pensi che i soli 1,8 miliardi previsti per l’agricoltura nella bozza di gennaio 2021 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), pari a circa l’1% delle risorse totali del piano, basterebbero per generare un aumento degli occupati di circa 50mila unità. Non male.

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