Mentre l’economia cinese finisce vittima di un debito tossico e contagioso che sta mettendo in fuga gli investitori, come dimostra il caso Huarong, a Wall Street le aziende del Dragone vanno a segno con le Ipo
C’è il debito buono e c’è quello cattivo. A voler parafrasare Mario Draghi, che della distinzione appena citata ha fatto un caposaldo della politica economica, in Cina si parla proprio di questo, con l’aggiunta di una suddivisione, oltre che finanziaria, geografica. Mentre l’economia che ha stupito il mondo con un Pil in crescita del 18,3% nei primi tre mesi dell’anno combatte al suo interno la sua personale battaglia contro un debito sovrano a rischio detonazione, fuori dai confini le grandi imprese del Dragone conquistano la fiducia degli investitori e dunque creditori, sul terreno più redditizio ma scivoloso al tempo stesso: la Borsa.
Strana mescolanza. Eppure, come raccontato a più riprese da Formiche.net, la situazione finanziaria cinese non è per niente tranquilla. La colpa è di quel debito cattivo e tossico che sta spingendo sull’orlo del default governi locali, banche, società immobiliari e persino quei Paesi in via di sviluppo inseriti nel novero della Via della Seta, che hanno sottoscritto prestiti (dalle dubbie clausole) con Pechino. Tutto questo, fuori dalla Cina, sembra spaventare poco, come dimostra una certa fiducia degli investitori verso la sostenibilità delle imprese cinesi, dimostrata a mezzo Ipo.
Il simbolo del debito cattivo all’ombra della Grande Muraglia si chiama Huarong, il principale gestore del debito privato e sovrano cinese, finito in serie difficoltà e per questo eletto suo malgrado a emblema delle pessime condizioni finanziarie della Cina, come rimarcato dall’Economist in un recente articolo. Che cosa è successo? La società ha mancato la prima scadenza per la pubblicazione dei conti 2020, innescando una spirale di panico tra gli investitori, che hanno visto nel ritardo la spia di un possibile default.
E c’è da preoccuparsi. La società oggi gestisce 1,7 trilioni di yuan (quasi 300 miliardi di dollari) di obbligazioni. Dentro c’è di tutto, debiti delle banche, delle grandi finanziarie, delle province e delle società immobiliari. Qualcosa che rimanda alle vicenda del gigante dei chip Tsinghua. La società, simbolo in tutto il mondo della tecnologia cinese, è finita infatti a un passo dal fallimento, dopo il mancato pagamento di un bond, emesso lo scorso autunno, del valore di 200 milioni di dollari (1,3 miliardi di yuan). Lo stesso potrebbe accadere con Huarong. Solo che, scrive l’Economist, essendo una società con tanto debito in pancia, un suo default vorrebbe dire un colpo mortale all’intera esposizione cinese.
Per questo a Pechino “c’è un certo allarme, al punto che numerosi alti funzionari della vigilanza bancaria e finanziaria starebbero prendendo in considerazione la ristrutturazione di Huarong”, scrive il settimanale. Il che avrebbe un prezzo “perché non solo la ristrutturazione equivarrebbe a un’ammissione di difficoltà, ma avrebbe serie ripercussioni su tutte le società e le realtà connesse a Huarong: investitori, banche commerciali, società quotate”.
Fin qui il lato oscuro del debito cinese. Poi, c’è il rovescio della medaglia, che riguarda le grandi aziende cinesi quotate a Wall Street. Quelle superstiti almeno, visto che tra le varie eredità dell’amministrazione Trump, c’è il repulisti di grandi imprese del Dragone in forza alla Borsa americana, tra cui China Telecom. Ebbene, secondo i dati del Financial Times, gli investitori Usa non sarebbero per nulla preoccupati circa la sostenibilità di aziende cinesi quotate. Lo dimostra il fatto che gli acquisti di azioni di gruppi cinesi sui mercati azionari statunitensi sono aumentati del 440% nei primi mesi del 2021.
Secondo i dati di Dealogic, le società cinesi hanno raccolto quest’anno la cifra record di 11 miliardi di dollari alla Borsa di New York e al Nasdaq, tramite offerte pubbliche iniziali, vendite successive di azioni ed emissione di obbligazioni convertibili e dunque di debito societario. Per esempio c’è l’Ipo da 1 miliardo della società di software Tuya, insieme a quelle di altri 20 gruppi cinesi. “Una sfilza di Ipo che ha sottolineato il fascino delle società cinesi sul mercato americano, nonostante le tensioni tra Washington e Pechino”. Peccato che gli investitori cinesi, con le proprie aziende, non la pensino così.