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Cina, il genocidio degli Uiguri non è un pretesto. Parola di Laura Harth

Mi hanno accusata di “propaganda e pretestuosità” perché insisto che si debba prestare ascolto e attenzione alle testimonianze delle vittime nello Xinjiang. Ma non mi fermo

Strani echi giornalistici concordanti questa settimana. Dopo essere stata definita “canaglia” dal canale televisivo internazionale del Partito comunista cinese (Cgtn) per aver denunciato presso le autorità competenti nientedimeno che la testimonianza forzata di una bambina uigura di 10 anni, forzatamente separata dai suoi genitori, mi ritrovo in fine settimana colpevole di “propaganda e pretestuosità” nell’insistere che si debba urgentemente prestare ascolto e attenzione alle testimonianze delle vittime nello Xinjiang. Quest’ultimo non da fonti cinesi, ma da Giulia Pompili, giornalista italiana che non solo stimo molto ma che conosce fin troppo bene il morso della propaganda e (i tentativi di) censura che provengono da Via Bruxelles a Roma.

È indubbiamente un bene, e un enorme primo merito della proposta di risoluzione del vicepresidente della commissione Affari esteri della Camera Paolo Formentini, che dopo quattro anni di imponente silenzio la questione uigura sia finalmente arrivata a un pubblico più ampio e oggetto di dibattito nelle aule parlamentari.

Mettiamo anche immediatamente in chiaro cosa chiede tale proposta, per poi valutarne la imputata “pretestuosità”. Impegnerebbe il governo innanzitutto a “considerare con attenzione le testimonianze provenienti dalla diaspora uigura relativamente alle misure di carattere genocidario di cui sarebbero vittima le minoranze residenti nello Xinjiang” e a ribadire l’obbligo esistente (!) dell’Italia a “esprimere, in tutte le sedi internazionali competenti, la più ferma condanna dell’Italia per ogni genere di politica genocidaria”.

Apriti cielo! Bieca propaganda a favore del regime imperialista americano guidato dal mascalzone Donald Trump… Ah no – pardon – dal presidentissimo Joe Biden, ma non fa niente. A nulla valga quindi citare il rapporto pubblicato il 30 marzo 2021 dal dipartimento di Stato americano che ribadisce in termini espliciti l’esistenza di un genocidio in corso: “Genocidio e crimini contro l’umanità si sono verificati durante l’anno [2020] contro gli uiguri prevalentemente musulmani e altri gruppi etnici e religiosi minoritari nello Xinjiang. Questi crimini sono continuativi e includono: la detenzione arbitraria o altra grave privazione della libertà fisica di oltre un milione di civili; sterilizzazione forzata, aborti forzati e applicazione più restrittiva delle politiche cinesi di controllo delle nascite; stupro; tortura di un gran numero di persone detenute arbitrariamente; lavoro forzato; e l’imposizione di restrizioni draconiane alla libertà di religione o credo, libertà di espressione e libertà di movimento”.

Fonte americana, quindi inattendibile per gli atlantisti nostrani. Andiamo quindi al Parlamento canadese dove la Commissione per i Diritti Umani, dopo lunghe audizioni tra il 2018 e il 2020, il 21 ottobre dell’anno scorso ha dichiarato: “La sottocommissione condanna inequivocabilmente la persecuzione degli uiguri e di altri musulmani turchi nello Xinjiang da parte del governo cinese. Sulla base delle prove presentate durante le audizioni della sottocommissione, sia nel 2018 che nel 2020, la sottocommissione è persuasa che le azioni del Partito comunista cinese costituiscano un genocidio come stabilito nella Convenzione sul genocidio”.

Chiaramente, e giustamente, si dirà che tale dichiarazioni politiche, sebbene basate su numerosi testimonianze documentate e confermate da ricerche ed indagini giornalistici, non costituiscono prova. Così ovviamente anche per i pareri da studi legali internazionali come la Essex Court Chambers nel Regno Unito, successivamente sanzionata dal Partito comunista cinese, o gli studi prodotti e convalidate da ricercatori e difensori dei diritti umani in tutto il mondo.

Non andrò qui a ribadire le numerose testimonianze atroci su quanto subito dalla popolazione uigura nello Xinjiang. Sono disponibili anche sulle pagine di Formiche per chiunque voglia conoscere, nonostante il carissimo prezzo che le donne e gli uomini coraggiosi che le hanno rese hanno pagato e continuano a pagare sotto la lunga mano repressiva del regime cinese persino all’estero.

Prendiamo invece alcune delle parole stesse dal Partito comunista cinese per vedere se le pratiche denunciate e documentate di uccidere membri del gruppo; causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per determinarne la distruzione fisica in tutto o in parte; imporre misure intese a prevenire le nascite all’interno del gruppo; e trasferimento forzato dei bambini del gruppo a un altro gruppo, rientrano o meno nella definizione della Convenzione ONU del 1948 che presuppone l’intento a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale.

A seguito delle proteste del 2009 a Ürümqi – capitale dello Xinjiang e dopo simili proteste in Tibet – teorici del Partito comunista lanciarono un appello per progettare una “società monoculturale”, un’unica “razza di Stato”, per spianare la strada a “un nuovo tipo di superpotenza”.

Nel 2014, la leadership del partito nello Xinjiang annunciò una “guerra popolare” e nel 2016 Xi Jinping nominò Chen Quanguo, allora segretario del partito nella regione autonoma del Tibet, un apparatchik la cui lealtà era fuori discussione e il quale si era già distinto nel Tibet come sistematizzatore di tattiche autoritarie, pronto a prendere di mira interi gruppi di persone con metodi che pervadevano la vita quotidiana. Che si tratta di una politica statale decisa ai più alti livelli è evidente quando Chen rende omaggio a Xi Jinping con un discorso intitolato “Attuare incrollabilmente la strategia dello Xinjiang del Comitato centrale del partito, con il compagno Xi Jinping al centro”.

A inizio 2017, Chen si recò a Pechino per incontrare Xi. Pochi giorni dopo, tenne un grandioso raduno a Ürümqi, con diecimila soldati ed armi automatiche pronte. Mentre gli elicotteri si libravano sopra la sua testa e una falange di veicoli corazzati sfilava, Chen annunciò una “offensiva devastante” e giurò di “seppellire i cadaveri dei terroristi e delle bande terroristiche nel vasto mare della guerra popolare”. “Questa stretta è il progetto principale. La missione è strappare alla radice il problema separatista”.

Per contestualizzare: come è emersa non solo da testimonianze ma da una lunga serie di documenti trapelati dalla Cina stessa, in particolare i China Cables, ormai la semplice appartenenza all’etnia uigura è fonte di forte sospetto di “terrorismo”.

“Arrestate tutti quelli che dovrebbero essere arrestati”, istruì Chen, e dall’aprile 2017 le sue forze iniziarono ad arrestare persone in massa. Un memorandum ufficiale trapelato a un’attivista uigura nei Paesi Bassi indica che in una sola settimana, quella del 19 giugno, le autorità delle quattro prefetture meridionali dello Xinjiang sequestrarono più di sedicimila persone. Altri documenti contenuti nei China Cables indicano chiare quote di arresti da mantenere. Ma anche se il numero di detenzioni era altissimo, non bastò alle autorità. A giugno 2017, Zhu Hailun, vice leader del partito nello Xinjiang, ha redatto un comunicato: “Continuate ad arrestare tutti coloro che dovrebbero essere arrestati. Se ci sono, arrestateli”. Un capo della polizia ha ricordato come un membro del Partito spiegò: “Non puoi sradicare tutte le erbacce nascoste tra i raccolti una per una: devi spruzzare sostanze chimiche per ucciderle tutte”.

Si potrebbe scrivere un libro intero con le prove schiaccianti, nonostante Pechino continui a impedire le missioni d’indagine indipendenti delle Nazioni Unite. Un giorno sicuramente la storia dedicherà lunghe pagine a questa atroce vicenda, così come al silenzio che regna ancora in buona parte dell’establishment politico. Questa testata, come poche altre in Italia, ne ha raccontato ampiamente negli ultimi anni. Le pagine sono lì per chi vuole. Poi ditemi se trovate “pretestuoso” chiedere che si ascoltino le voci delle vittime piuttosto che siglare accordi mediatici con le testate di propaganda (quella sì vera) del Partito comunista cinese.

L’autrice è coordinatrice del Consiglio Scientifico del Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella”, campaign director di Safeguard Defenders e liaison officer italiana per Ipac

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