Matteo Salvini e i ministri leghisti, che si sono astenuti (sbagliando) sulle nuove misure di mitigazione del contagio a proposito del coprifuoco hanno evidenziato però una contraddizione effettiva: il limite delle 22 trasforma in una beffa la riapertura serale dei locali, perché non consente di servire la cena
Si può avere torto anche quando si ha ragione. Non basta, infatti, azzeccare una sola verità in una questione complessa. Matteo Salvini e i ministri leghisti, che si sono astenuti sulle nuove misure di mitigazione del contagio a proposito del punto da loro sollevato – la chiusura dei ristoranti alle 22 nel quadro della disposizione generale del c.d. coprifuoco – hanno evidenziato una contraddizione effettiva: un limite siffatto trasforma in una beffa la riapertura serale dei locali, perché non consente di servire la cena, dal momento che i clienti devono poter uscire prima per non incappare nel coprifuoco.
Quei geni che stabiliscono queste regole non si sono accorti che il gioco perverso degli orari serali favorisce l’organizzazione dei c.d. apericena che, in un’altra fase delle nostre tribolazioni, venivano additati come focolai della perdizione in cui gozzovigliavano i giovani “untori”. Dove sbaglia Salvini? Di errori ne ha fatti tanti, fino a farsi cogliere, l’estate scorsa, nella trappola del “negazionismo”. Nel dimenticare, ora, che, all’interno della coalizione si era raggiunta un’intesa e che su di essa Mario Draghi aveva messo la faccia su di “un rischio ragionato”, con la evidente sottolineatura di una svolta in direzione delle riaperture quale scelta vera e propria di carattere politico, sottraendola ai diktat di quel gruppo di virologi che fino ad ora ha prevalso nell’orientare l’azione del governo.
Ovviamente, anche questa volta, come è sempre accaduto sono state decise misure discutibili la cui evidenza scientifica non regge il confronto con il buon senso. A parte la chiusura di interi settori come il turismo invernale, per oltre un anno l’ordine era “state in casa”, fuori era (ed è ancora) obbligatorio l’uso della mascherina. Adesso si è scoperto che il nemico si annida tra le pareti domestiche nella grande maggioranza dei casi, e che è meglio stare all’aperto, al sicuro. Ricordate quando è mancato poco che si appostassero dei tiratori scelti sui tetti per abbattere i fan del jogging? O quando si chiudevano i parchi? Oppure quando le famiglie nelle festività andavano a fare shopping – tra il biasimo dei tg e dei talk show – rischiando di essere disperse dalle forze dell’ordine con idranti e cariche di alleggerimento? Gli studenti hanno perso nei fatti due anni di formazione culturale e professionale, ma per quanti sforzi si siano fatti non si è mai riusciti ad aprire stabilmente e continuativamente le scuole, come si vuole fare dal 26 aprile in avanti. Non si è mai capito perché non si sia mai pensato a differenziare gli orari di apertura dei plessi e dello svolgimento delle lezioni in presenza (la giornata è fatta da una mattina e da un pomeriggio) anche per alleggerire nelle ore di punta, il carico dei trasporti pubblici (indicati come la sentina del maleficio, come lo scaricabarile di tutti i motivi di contagio, senza che poi siano stati mai presi provvedimenti adeguati).
Ma non si esce dallo stato d’animo collettivo di un Paese in cui è stato diffuso il panico della sofferenza e della morte, proprio come arma di contenimento del contagio; dove non si sapeva cosa fare ma qualcosa andava pur fatto. In un contesto in cui i decessi non vengono più considerati eventi naturali, ma errori del sistema sanitario, della politica e delle amministrazioni pubbliche. Il fatto che la magistratura sia in agguato come un avvoltoio, senza contestualizzare gli eventi su cui indaga, è un segnale che non aiuta ad uscire da questa situazione. Come ha detto Draghi in conferenza stampa, le riaperture sono il miglior sostegno all’economia. Ma per ora prevale tra la gente un sentimento di cautela che deve essere superato con la persuasione e la dimostrazione della inutilità di certe misure irrazionali. È vero, vi sono settori del mercato del lavoro ormai pronti ad una protesta anche violenta, a cui dare ristori è sostegni è come offrire brioches (copyright la regina Maria Antonietta), ma è molto più ampia la platea di coloro che sono smarriti, impauriti, frastornati per i giri di valzer che le autorità sanitarie fanno nell’uso dei vaccini.
Non si può accettare, come verità di Stato, il “pensiero unico” che ci hanno propinato fino ad ora e pretendere di spezzare l’incantesimo con un “contrordine compagni”, senza prima mettere in discussione le teorie improvvisate che hanno tenuto la scena tutti i giorni e a tutte le ore fin da quando non si sono avvertiti i primi effetti della pandemia. Ci sono temi che possono fare breccia nel Muro del “prima il Covid”, perché possono riferirsi a situazioni concrete che le famiglie vivono a prescindere dal virus. Vi sono patologie gravissime (oncologiche, cardiologiche, ecc.) che vengono trascurate benché il loro accertamento in tempi influisca sul risultato dell’intervento chirurgico e della terapia. Ci sono tante famiglie che devono gestire famigliari che si sono visti rimandare gli interventi a data da destinarsi o che stentano ad essere presi a carico per la terapia successiva.
Ovviamente non è il caso di scatenare una competizione tra pazienti e malattie, ma il Covid-19 (anche grazie alla vaccinazione e il progredire delle cure) deve essere riportato alla misura di una patologia, grave, ma non fino al punto di prendere in ostaggio la sanità. Del resto siamo tuttora in attesa di quanto Draghi promise, il 17 febbraio al Senato: “Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada – ha proseguito il premier – per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La ‘casa come principale luogo di cura’ è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata”.