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La civiltà del consenso e quella della negazione in tempo di crisi. L’analisi di Serafin

Una ricostruzione dell’accordo umano, sociale e politico in tempo di crisi, non trascurando l’aspetto psicologico della innata volontà di dare il nostro assenso o il nostro diniego a determinate questioni democratiche. L’analisi di Claudio Mattia Serafin

Le pagine dei quotidiani, ci si farà caso, pongono sempre più l’accento sulla questione della socialità, come anche sull’aspetto dell’allontanamento forzato e della questione scolastica; ancor più problemi sono dati dalle questioni economiche urgenti e sempre più gravi.

Il vero quesito è: si è veramente, profondamente (ossia intimamente) d’accordo con tutte le prassi che vengono poste dall’alto, a livello informativo? Dal non circolare in caso di emergenza sanitaria, sino al non rubare, per effettuare un esempio duro ma efficace (il furto è un reato, disciplinato dal Codice penale, ma tacciato di ovvia ingiustizia anche dalla Costituzione, da qualsiasi norma civile, religiosa, familiare)? Si veda un esempio, all’apparenza insignificante, di recente cronaca della strada: Vogliono rubare le pizze al rider, lui resiste e lo massacrano di botte: denunciati 3 giovani.

Fingendo per un istante di ignorare questi inquietanti quanto isolati (?) episodi, si torni all’ordinaria vita civile, ove si dovrebbe registrare l’assenza di comportamenti devianti (la devianza è termine per certi versi improprio, utilizzato da parte della sociologia e mai dalla scienza penalistica, cui per vero appartiene). La vita comune, come noto, è data da scambi di assenso. Numerose volte al giorno ci è consentito di vivere e di operare serenamente proprio grazie allo scambio (di vita, economico, professionale, sentimentale).

È bene ricordare che quando si presta il proprio consenso, raramente vi è un atto totalmente libero, se non anche arbitrario, alla base di questo consenso: un determinato numero di moduli comportamentali accettati spinge la singola persona a dire “sì”, oppure “no”, come risposta ai quesiti che le vengono posti.

Molto spesso alla sua risposta corrisponde appunto il perfezionamento di un accordo; si può dunque dire che il raggiungimento di un comune consenso è dato giuridicamente dall’incontro (piuttosto sommario) di due volontà.
Anzitutto la volontà è parzialmente viziata, o per meglio dire ostacolata, da un certo numero di segnali – non codificati e difficilmente interpretabili – dati dal proprio inconscio. Che questa sfera di legittimazione della propria volontà esista o meno, ovviamente non è dato saperlo (Freud si batté per ammetterne l’esistenza). È anche vero che la procedura dell’accordo come regola di civiltà è chiaramente innestata in profondità nel tessuto sociale, tale per cui difficilmente ci si opporrà al modello dell’accordo, dello scambio, del contratto (il cd. riflesso condizionato, cfr. I. Pavlov), perché calandoci nella mentalità dell’uomo medio, quest’ultimo non è in grado o non ha le risorse psico-fisiche per trovare nuove forme di regolarizzazione della vita civile e dei suoi ritmi. In questo senso, si può affermare che l’uomo è in tutto e per tutto identico all’animale (da un punto di vista etologico, l’uomo si inchina, flirta, prende accordi, esattamente come un animale, cfr. I. Eibl-Eibensfeldt).

LA SOLITUDINE 

Anzitutto l’essere umano ha un fondamentale istinto di conservazione, che a livello più basico lo porterà a ignorare l’esistenza di chissà quali strutture e architetture costituzionali superiori a lui: egli tenderà dunque a regolare solo ed esclusivamente i traffici che lo riguardano personalmente o, dove non personalmente, che afferiscono alla sua sfera privata (familiare, lavorativa, sentimentale, non oltre; cfr. E. Fachinelli).

Una dualità tragica, per usare le parole dello psichiatra citato, proprio perché sempre più distante, inconciliabile, difficilmente ricomponibile, come due denti malamente separati: l’ignoranza, voluta o meno, di una dimensione collettiva è dunque altro fattore da tenere in considerazione quando si parla di socializzazione. È noto, infatti, che la dimensione collettiva è data da strutture, regole, tabù, che possono influenzare – specie nelle società complesse (É. Durkheim) – più o meno pesantemente la volontà individuale. Il consociato formerà la sua volontà solo in osservanza di presentimenti, lati atteggiamenti timorosi nei confronti di un pericoloso gigante la cui sensibilità non si intende assolutamente urtare.

DIRITTO ED ECONOMIA IN GRANDE DIFFICOLTÀ

All’ombra di quest’ultimo essere “abnorme”, due o più contraenti porteranno a compimento i loro affari: di qui si comprende come non vi sia assolutamente alcuna aura mistica formantesi attorno alla conclusione dell’accordo, proprio perché i contraenti l’hanno del tutto esclusa dal principio.

Non vi è suggestione, non vi è desiderio esterno, proprio perché tutto l’io dei contraenti è estremamente contratto su se stesso, ripiegato, tale per cui le singole personalità (ergo le volontà) degli stipulanti sono estremamente ridotte, benché ovviamente non impotenti (si vedano in specie le lettere evangeliche di papa Giovanni Paolo II e papa Giovanni XXIII, mastodontico lavoro sull’etica del lavoro e sull’individualismo). Queste ultime sono liberamente consultabili qui.

Ogniqualvolta si voglia estromettere il fattore psicologico, se non anche della consapevolezza, da un’attività umana importante come quella privatistica e negoziale, o anche personale e intima, esso ha sempre modo di effettuare nuovamente il suo ingresso in maniera plateale e brutale, tale da rendere difficile l’indagine dello studioso, come anche la realizzazione degli obiettivi dei singoli, le cui intenzioni sono chiaramente offuscate da innumerevoli fattori, da essi a malapena captati.

Pensare che vi sia poi un nucleo negoziale raggiunto è solo un’ipotesi di civiltà, di difesa contro l’anarchia, proprio perché come noto l’essere umano è sempre pronto a tornare sui propri passi, a contraddirsi qualora gli convenga, a scusarsi solo se necessario a suoi secondi fini. In questo senso il discorso si aggroviglia ancora di più, perché si comprende bene come ogni singolo procedimento e incontro d’intenti possa diventare un vero e proprio incubo fattuale, sociale, giuridico. L’apparente staticità della vita sociale è data proprio da questo invece inarrestabile flusso, pieno di contraddizioni, che paradossalmente può fornire un’immagine di immanenza (la “società immobile”, secondo P. Virilio): sarà meglio riappropriarsi, quanto prima, del vero e autentico modo di affermare qualcosa, oppure di negarlo. Ogni giorno e ogni ora; in questo istante, magari.


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