L’editoriale di oggi sul Corriere della Sera di Ernesto Galli della Loggia racconta esattamente il rischio che corriamo con la fine della pandemia: tornare al passato. In sintesi, della Loggia ci dice che il covid avrebbe mostrato come la globalizzazione e il libero scambio siano morti; e come sia necessario tornare ad affermare il primato dello Stato-nazione, evitando ulteriori spazi di sovranità condivisa. Giudizi tagliati con l’accetta, la cui semplicità probabilmente piace a qualche lettore; ma sconcerta per la povertà di analisi e prospettiva.
Il mondo è sempre più complesso e qualsiasi tentativo di semplificare finisce per essere una rappresentazione grottesca, caricaturale, falsata della realtà. Buona per acchiappare consensi nel disagio e nella rabbia sociale dilagante, ma di nessuna efficacia per guidarci nel mondo reale. Quello che ci ha insegnato il covid è ben diverso da quanto afferma Galli della Loggia.
La pandemia, come una guerra, ha rispolverato sentimenti di contrapposizione: individui, classi sociali, regioni, Stati hanno tirato fuori dagli armadi le retoriche stantie delle responsabilità altrui, del noi contro loro; con un noi ed un loro che sono contenitori vuoti, pure metafore che ciascuno può riempire a piacimento.
Peccato che mentre gli altri attori internazionali sono Stati (federali) di dimensione continentale, in Europa pensiamo ancora di poterci richiudere dentro obsoleti confini nazionali; irrilevanti, se non nelle illusioni ottocentesche di qualche Galli della Loggia, sul piano globale, dove si consumano le vere battaglie per la sopravvivenza.
Il covid ha semmai messo a nudo la vulnerabilità di un sistema globale in cui gli unici centri di potere sono ancora oggi gli Stati nazionali. E che avrebbe invece bisogno di spazi ed istituzioni di scelta collettiva a vari livelli di governo. Per ripristinare, ad esempio, quelle catene globali del valore che per decenni hanno consentito di abbattere i costi di produzione della maggior parte dei beni di consumo, salvando le classi medie dagli effetti nefasti delle crisi finanziarie internazionali e dalla crescita dei divari economici. Senza i mobili Ikea, i tessuti del Bangladesh, la tecnologia coreana o cinese oggi milioni di giovani europei sarebbero impossibilitati ad accedere a panieri di consumo considerati normali.
Il covid ha messo a nudo l’importanza delle comunità locali come centri di sopravvivenza quotidiana in casi d’emergenza, ma anche il ruolo strategico di connessioni a reti di trasporto, comunicazione, approvvigionamento articolate dalla dimensione regionale a quella continentale e globale. Ha messo in evidenza le contraddizioni di una democrazia ancora oggi costretta a fermarsi ai confini nazionali in un’Europa che può avere un ruolo solo unita sul piano globale.
Il covid, per chi ha gli occhi per vederle, ha fatto emergere proprio le carenze di un progetto incompiuto di sovranità condivisa che, avviato in Europa negli anni Cinquanta, si è interrotto negli ultimi decenni e sta timidamente cercando di recuperare, negli ultimi mesi, il terreno perduto. Faticosamente, non c’è dubbio. Proprio a causa dell’egoismo dei governi nazionali, usurpatori di quel potere che dovrebbe essere rivolto a soddisfare i bisogni dei cittadini alla dimensione in grado di affrontarli. Che nel caso europeo non può che essere quella continentale.
Il futuro è difficile da costruire. È fondato, in Europa, su una democrazia multilivello, che riconosca spazi di scelta collettiva dal livello locale a quello continentale, che cancelli la possibilità di ricatti basata sull’anacronistico voto all’unanimità, che attribuisca le competenze sulla base della sussidiarietà, non di usi e costumi risorgimentali.
Naturalmente ognuno è libro di allinearsi alla visione di Galli della Loggia e rassegnarsi a sognare un ritorno al passato, che appare così facile da ripristinare. Personalmente, e spero che almeno le giovani generazioni la pensino come me, preferisco provare a costruire il futuro.