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La Camera ascolti le voci degli uiguri. La proposta di Laura Harth

Se la commissione Esteri ascoltasse le testimonianze dallo Xinjiang non potrebbe che attivarsi per dire basta al genocidio uiguro. L’opinione di Laura Harth (Safeguard Defenders)

Partiamo dalle buone notizie: il dibattito sulla tragedia uigura si è finalmente aperto appieno anche in Italia e ci possiamo solo augurare che non scompaia di nuovo dai radar dell’opinione pubblica e parlamentare, dopo anni di sostanziale omertà imposta sul tema (con tanto di intervento della Digos nell’ormai lontano 2017).

Oggi, sebbene su posizioni ancora molto divergenti nella definizione di quanto sta accadendo nello Xinjiang, tutti i partiti politici in commissione Affari esteri della Camera si sentono in dovere di esprimersi sul tema, arrivando persino a un totale possibile di ben quattro proposte di risoluzione diverse (e speriamo che non sia il da Beppe Grillo amato Fabio Massimo Parenti a scrivere la proposta del Movimento 5 stelle).

La pressione è alta a seguito delle decisioni assunte dagli Stati Uniti – dal dipartimento di Stato su impulso dal Congresso – e dai parlamenti canadese e olandese. Dopo l’aumento di denunce anche sui media nostrani, nessuno può più rimanere in disparte. Dal silenzio passiamo quindi alla fase due: la negazione o diminuzione dei fatti e/o delle proprie responsabilità.

Fa bene il presidente della commissione Piero Fassino – che aveva già parlato in termini molto chiari sulla centralità dei diritti umani universali all’ambasciatore cinese durante la sua audizione informale due settimane fa – a fare appello a una proposta unitaria che possa raccogliere l’unanimità dei voti. Ma dinanzi alle gravissime accuse nei confronti di Pechino, sostenute da dati e testimonianze schiaccianti, tale unità non può derivare da un gioco a somma zero in cui vince il minor offerente a discapita della popolazione uigura.

Avendo letto quindi il verbale della discussione in seno alla commissione, è opportuno ricordare alcuni punti ed evidenze.

Vanno ricordati innanzitutto gli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia stessa, come metro di partenza. La Convenzione Onu sul genocidio del 1948 definisce gli atti considerati come “genocidi” e impone alla Repubblica italiana, come a tutti gli Stati firmatari, azioni non solo per punire chi si rende colpevole di tali atti, ma anche di “prevenire” come sancisce la Convenzione sin dal suo titolo.

Tra le azioni previsti nella Convenzione, ormai norma internazionale consuetudinaria, vi è ovviamente innanzitutto la proibizione di commettere atti di genocidio sul proprio territorio. Ma vi è anche l’obbligo di promulgare leggi pertinenti e punire gli autori, “siano essi governanti costituzionalmente responsabili, pubblici ufficiali o privati”. È inoltre possibile anche invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a intraprendere le azioni ai sensi della Carta delle Nazioni Unite che ritengono appropriate per la prevenzione e la punizione degli atti di genocidio o di qualsiasi altro atto enumerato nell’articolo 3 della Convenzione.

Questo potrebbe effettivamente includere un appello al Consiglio di sicurezza per invocare il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ma non costituisce – contrariamente a quanto dichiarato – un obbligo a farlo. Inoltre – ed oltre al fatto che nessuno auspichi una guerra aperta con la Cina –, dal momento che la Repubblica popolare cinese gode di seggio permanente in seno al Consiglio con conseguente potere di veto, è del tutto evidente che una tale proposta di azione in questo organo non sarebbe strada percorribile.

È peraltro proprio l’impercorribilità di molte delle strade internazionali costruite proprio per poter rispondere in modo adeguato e far sì che il “mai più” si trasformi in vera capacità di prevenzione che sprona all’azione parlamentare. Infatti, gli appelli incessanti dell’ufficio dell’Alto commissario Onu per i diritti umani per un’indagine indipendente internazionale nello Xinjiang da mesi si scontrano contro i paletti di Pechino che si dice pronta ad organizzare una missione sì, ma per “portare le buone notizie dallo Xinjiang” – stile Oms per intenderci – ed è nel frattempo altamente impegnata a riscrivere le regole internazionali sui diritti umani in seno al Consiglio per i diritti umani.

A differenza dell’Oms però, l’Unhcr non si vuole prestare a tale gioco propagandistico di Pechino. E in effetti basta accendere il canale di propaganda del Partito comunista cinese Cgtn per poter ciascuno di noi compiere il tipo di indagine che ha in mente Pechino. L’altra strada bloccata è quella della Corte penale internazionale, di cui proprio l’Italia fu il maggior artefice, ma la quale non è riconosciuta da Pechino e verrebbe lo stesso bloccata a livello del Consiglio di sicurezza.

Anche i tribunali nazionali non hanno competenza in materia e i pochi Paesi che negli ultimi decenni hanno cercato di aprire la strada alla giurisdizione universale in materia si sono ben presto visti richiamati dagli stessi poteri che potrebbero esserne suscettibili.

Che fare quindi del crescente mole di rapporti internazionali che parlano di genocidio, ma ancor più delle testimonianze incessanti sulla sorveglianza di massa, la discriminazione etnica, la detenzione di massa, la tortura, lo stupro di gruppo istituzionalizzato, la sterilizzazione forzata, la separazione e l’indottrinamento dei bambini uiguri?

Dobbiamo chiudere gli occhi e tappare le orecchie dichiarando l’incapacità di agire o ci vogliamo assumere la propria responsabilità morale di denunciare quanto sta accadendo, schierandoci con forza accanto alle vittime e non al loro carnefice?

Non basta, come già fa la Commissione europea in risposta alle forti perplessità sull’Accordo complessivo sugli investimenti con la stessa Cina, deviare sempre la responsabilità ad altri, siano enti internazionali che si sappiano bloccati per la loro stessa architettura o ad aziende operanti nel Paese terzo con i meccanismi di due diligence. Da anni le aziende stesse denunciano l’impossibilità di effettuare tali controlli in un Paese dove esse stesse sono sottoposte al controllo crescente del Partito comunista cinese e chi tra loro cerchi di farlo viene sottoposto senza sé e senza ma a immediato boicottaggio statale come dimostra il caso di H&M proprio in questi giorni. Altri come Hugo Boss o Volkswagen invece tacciono, ricordandosi forse la dottrina aziendale che già gli consentì di fiorire sotto il regime nazista.

Non possiamo diramare quali sono gli obblighi dello Stato di proteggere i diritti umani – ma anche le nostre aziende operanti all’estero – ad altri. Spetta a ciascuno di noi affermare i principi in cui crediamo e decidere che le parole contenute nella Convenzione Onu per la prevenzione e la punizione del genocidio non debbano rimanere lettera morta.

È qui che devono e possono entrare in gioco proprio i parlamenti, affermando il loro forte potere di morale nel dire che no, mai più noi staremo in silenzio dinanzi questi crimini.

Avrebbe delle conseguenze? Indubbiamente. Ma sono fermamente convinta che se la commissione Esteri dovesse decidere di invitare alcuni delle donne e degli uomini (e magari anche i quattro bambini rimasti sotto scacco della macchina di propaganda di Pechino nello Xinjiang) a testimoniare dinanzi essa circa gli orrori vissuti, i traumi subiti e i dolori continui, non potrebbe che concludere che la conseguenza del rimanere in disparte sarebbe infinitamente più insopportabile.



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