Tocca all’Occidente guidare la trasformazione. Ma senza il dialogo con Pechino, un nuovo ordine, inevitabilmente multilaterale e policentrico, non potrà nascere. Intervista con Alberto Pagani (Pd)
Intervista ad Alberto Pagani, deputato e capogruppo del Partito democratico in commissione Difesa, docente ed autore di saggi su intelligence e geopolitica, che risponde ad alcune domande sulla rapporto conflittuale tra Stati Uniti, Cina, sul rischio che questa conflittualità degeneri, e sul ruolo dell’Europa e della Nato.
Onorevole, iniziamo la nostra conversazione da un tema che l’appassiona senz’altro, perché ha scritto un saggio sul pensiero strategico cinese e la sua applicazione nel progetto delle nuove Vie della Seta. Si direbbe che per quanto riguarda il rapporto con la Cina la politica estera del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, sia in continuità con quella del suo predecessore Donald Trump. Lei che dice?
Direi proprio di sì, ma anche con quella di Barak Obama. Ricordiamo che a utilizzare per prima l’espressione Pivot to Asia fu Hillary Clinton, che nel 2011 era segretario di Stato nell’amministrazione Obama, e indicò la necessità di spostare il baricentro strategico dell’attenzione americana dal Mediterraneo, Est Europa e Medio Oriente, al Pacifico e all’Asia. La politica estera americana per fortuna non è così ballerina da cambiare direzione a ogni cambio di presidente ed è evidente che se oggi cerchiamo nel mappamondo quali sono le aree più sviluppate e innovative le troviamo sulla costa occidentale degli Stati Uniti e su quella orientale della Cina, cioè sulle due sponde che affacciano sul Pacifico. Lo spostamento del baricentro ha restituito chiarezza al ruolo degli Stati Uniti nel mondo, sintonizzandosi con le dinamiche fondamentali della potenza, ma è la conseguenza di un mutamento globale economico e sociale, che l’ha preceduta. Per questo non può cambiare insieme all’inquilino pro tempore della Casa Bianca. In questo secolo la competizione per la leadership sarà oggettivamente giocata sulle prime due grandi potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, a prescindere da chi sia a guidare temporaneamente i due Paesi.
Ritiene che questo conflitto possa essere evitato? O che possa comportare dei rischi per noi?
Il conflitto è innato nella natura umana come nella realtà sociale. Tra le nazioni è conseguenza della diversità d’interessi, percezioni, culture. Lo storico ateniese Tucidide raccontò, 2.400 anni fa, come il timore che gli ateniesi incutevano agli spartani, insidiandone l’egemonia, produsse la lunga e sanguinosa guerra del Peloponneso. Oggi il politologo americano Graham Allison usa l’espressione trappola di Tucidide per descrivere il rischio attuale di un conflitto armato tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese, assimilando alle cause di quell’antica guerra preventiva, l’insidia all’egemonia americana rappresentata dalla Cina. Studiando i casi storici di potenze emergenti che minacciarono l’egemonia di potenze consolidate, evidenzia come 15 casi su 20 siano sfociati in guerra, per questo intitola il suo libro in maniera interrogativa: Destined for War: can America and China escape Thucydide’s trap?. Questo è il punto: come la politica può evitare questo esito nefasto? Come ricostruire un nuovo ordine mondiale, ora che, come ha detto Henry Kissinger, quello basato sul Washington consensus non esiste più. Quando il vecchio mondo muore e quello nuovo non viene alla luce, c’è una fase di interregno in cui possono nascere i mostri, diceva un grande intellettuale italiano del secolo scorso. Stiamo attraversando proprio una di quelle pericolose fasi storiche.
Perché ritiene che sia una fase di cambiamento e transizione così profonda? C’è chi parla di seconda guerra fredda, nella quale la Cina assume il ruolo che in passato aveva l’Unione sovietica. Non si tratterebbe quindi di un cambiamento sostanziale del modello, ma solamente di uno dei protagonisti, lei non crede?
Non sono d’accordo, non si sta riproponendo lo stesso schema di prima con attori diversi. A mio avviso è cambiato il paradigma, perché il fatto più rilevante è che adesso, dopo più di 500 anni, è finito il dominio dell’uomo bianco sul pianeta. Fin dai tempi delle grandi esplorazioni e scoperte geografiche, quindi delle conquiste coloniali, e poi della rivoluzione industriale, i popoli di origine europea, che rappresentavano una piccola minoranza dell’umanità, hanno dominato il mondo, sottomettendo popoli e culture antichissime, come quella cinese o quella persiana. Un geniale ornitologo di nome Jered Diamond ha scritto un brillante saggio, intitolato Guns, germs and steel: The fates of human societies, che racconta come questo dominio non sia stato il frutto di una superiorità antropologica dei popoli di origine europea, ma l’esito di 13.000 anni di storia dell’umanità. Nel suo libro, Diamond sostiene che sia stato determinato da una combinazione di circostanze accidentali, come la resistenza alle malattie infettive derivate dall’allevamento gli animali, dalla possibilità data dall’agricoltura di specializzare professioni scientifiche e militari e dal vantaggio tecnologico che ne è derivato. Per questo dopo cinque secoli quella situazione può improvvisamente finire. Oggi la lontana rendita di posizione eredita dal passato si è definitivamente esaurita e sono riemersi prepotentemente sulla scena quei popoli e quelle antiche culture che erano stati sottomessi nei secoli scorsi. È un cambiamento che comporta rischi enormi, ma non è un fatto negativo, in sé. In pochi anni, milioni di persone si sono emancipate dalla miseria e dalla fame, si affacciano alla soglia del benessere e, malgrado la nostra percezione sia diversa, nella realtà si sono notevolmente ridotte le diseguaglianze, su scala globale. Per un uomo di sinistra come me, quando milioni di persone che morivano di fame migliorano la loro condizione di vita, è un progresso. Tuttavia, a mio parere la Cina non è assolutamente in grado di rappresentare da sola il nuovo centro dell’ordine mondiale, come non sarà possibile ripristinare l’ordine precedente, perché le condizioni reali dei rapporti di forza non sono più le stesse. Personalmente sono convinto che tocchi all’Occidente guidare questa trasformazione, ma che senza il dialogo con Pechino, un nuovo ordine, inevitabilmente multilaterale e policentrico, non potrà nascere.
Dunque non è vero che stiamo inaugurando una nuova Guerra fredda?
Non ho detto questo, anzi, credo che sia abbastanza vero, seppure in un contesto e con modalità diverse. Dico che non assistiamo semplicemente ad una sostituzione dei protagonisti dentro uno scontro già visto, ma ad un cambiamento profondo dell’equilibrio del potere nel mondo. Una nuova divisione internazionale del lavoro ha prodotto una diversa distribuzione ed accumulazione della ricchezza, e quindi del potere. In Asia vive la metà dell’umanità che è presente sulla Terra, ed è proprio lì che si generato un processo di crescita straordinario ed impetuoso, che ha travolto e cambiato tutti i vecchi equilibri. Si tratta di un passaggio storico, veramente epocale, e c’è una grande contraddizione, ed un’insidia, una grande minaccia per i nostri valori e per la cultura, dentro questo cambiamento. Quello che più dovrebbe farci preoccupare è il fatto che i nuovi protagonisti, a cominciare dalla Repubblica popolare cinese, abbiano adottato con enorme successo economico il sistema capitalistico, ma non abbiano accettato con esso la nostra idea politica di democrazia liberale. E il fatto che sistemi autoritari si siano dimostrati così performanti mette in crisi il nostro modello democratico, che ha processi decisionali più lenti e complessi, a volte con esiti incoerenti, tardivi e contraddittori, rappresenta oggettivamente una minaccia per il nostro sistema di valori, centrato su diritti umani e libertà individuali. Questo mi preoccupa moltissimo.
Ritiene che la Cina rappresenti una minaccia per la democrazia?
Non lo è soltanto la Cina. La crisi delle nostre democrazie liberali è più profonda, purtroppo. Nasce da una visione miope, che ha sposato un neoliberismo rozzo e sciocco, che ha promosso un processo di globalizzazione ottusa, impoverito i ceti medi e trascurato il benessere dei popoli. Bisogna guardarsi allo specchio per agire con giudizio perché la sfiducia nel futuro e nelle istituzioni che permea l’Occidente ha anche cause endogene, che risiedono nei nostri errori, non è solo colpa degli altri. Dopo il crollo del muro di Berlino, quando insieme la Guerra fredda è finita anche la contrapposizione ideologica tra i modelli politici ed economici dei due blocchi, abbiamo pensato che il capitalismo liberale, unico superstite, fosse il modello vincente. C’era la convinzione che si sarebbe diffuso inarrestabilmente, diventando presto il modello unico mondiale, e che questo avrebbe portato alla fine dell’evoluzione socio-culturale dell’umanità. Fu allora infatti che il politologo americano Francis Fukuyama dichiarò che era arrivata la fine della storia. Sembrava che la democrazia e la libertà marciassero insieme, incontrastate, e che sarebbero arrivate rapidamente anche negli angoli più remoti del Pianeta. Se poi non ci fossero arrivate da sole le avremmo potute portare noi, a bordo dei carri armati, pensavano gli estremisti come George W. Bush.
Ma la democrazia non ha conquistato il mondo, giusto?
No, non l’ha conquistato. Non ha conquistato i cuori e le menti dei popoli che non l’avevano mai conosciuta, non sapevano cosa fosse. Non ha convinto quei popoli che avevano una struttura sociale diversa, di tipo tribale, o una civiltà che da migliaia di anni subordina l’individuo alla società, perché fondata sulla cultura confuciana, taoista e legista. Quando Samuel Huntington parlò di scontro di civiltà fu equivocato, forse perché i più lo commentavano senza averlo letto, ma aveva ragione: ci era sfuggito il fatto che nel resto del mondo, gli altri popoli non bramavano affatto dal desiderio di essere occidentalizzati, perché l’altra faccia della globalizzazione è la difesa della propria cultura, della propria storia, della propria identità. Le differenze culturali tra le civiltà sono diventate le nuove linee di faglia, le fratture lungo le quali si alimentano le nuove tensioni e rischiano di esplodere i nuovi conflitti. Ci siamo illusi che la globalizzazione avrebbe portato alla fine anche un modello di sicurezza internazionale nuovo e migliore. Ma le cose non sono andate affatto così.
Il capitalismo però si è diffuso realmente in tutto il mondo, ed è diventato l’unico modello economico, incontrastato e senza alternative. No?
Il capitalismo sì, ma la libertà no. In Occidente il capitalismo aveva prodotto il sistema politico liberale, perché così lo Stato poteva garantire le libertà necessarie all’imprenditorialità privata, e poi la democrazia, come forma di governo che garantisce la partecipazione popolare al governo della cosa pubblica, ed infine anche lo Stato Sociale, nato proprio in Europa, per mitigare e correggere i disastri sociali prodotti da un capitalismo sfrenato. Per noi occidentali non si più disgiungere il capitalismo dalla democrazia liberale, per ragioni storiche, dalla Rivoluzione francese in poi. Per noi la democrazia è il sistema di governo che garantisce le condizioni per lo sviluppo capitalistico, a cominciare dalla tutela della libertà economica, ma questa nostra specificità non è affatto una regola generale. Paradossalmente si potrebbe dire che il nostro ordinamento democratico sia un accidente della storia, perché la maggior parte di popoli umani di tutte le epoche non hanno conosciuto i valori di libertà e democrazia, che noi consideriamo universali. Oggi assistiamo a uno sganciamento dei due termini, si potrebbe parlare di un rovesciamento delle posizioni. A Davos il presidente della Repubblica popolare cinese, il comunista Xi Jinping, si è paradossalmente fatto difensore dell’economia liberista e della globalizzazione, contrastando le politiche protezioniste americane che impongono dazi doganali. È un mondo rovesciato, per certi aspetti.
Torniamo dunque alla domanda iniziale, in questo mondo rovesciato: lei crede che corriamo anche il rischio di nuove guerre o no?
Certo, ma su una dimensione diversa. Quando parliamo di guerra pensiamo sempre solo all’attività cinetica, ma oggi le guerre non si combattono più solo sui campi di battaglia, con le armi tradizionali. Ci sono guerre commerciali, economiche e finanziarie, la turbativa dei mercati azionari, la guerra dell’informazione, che si combatte con la manipolazione delle notizie e dei media, la pirateria e la diffusione di virus informatici, che sono espressioni della la guerra cyber. Prima dell’attacco alle Torri gemelle i colonelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui definirono Osama Bin Laden l’interprete più efficace di un nuovo tipo di guerra e George Soros un terrorista finanziario. Lo scrissero in un trattato militare sul concetto di sistema d’arma che fu tradotto in Italia con il titolo Guerra senza limiti, e che ridefinisce in maniera molto chiara la strategia di guerra asimmetrica, perché in assenza di limiti il concetto di forza e di debolezza perdono i loro connotati. Non esiste più un campo di cui la guerra non possa servirsi, scrivevano i due analisti alla fine degli anni novanta, e non c’è più ambito che non abbia fatto proprio il modello offensivo della guerra. Non è un caso che proprio in quegli anni i nostri lungimiranti vicini francesi abbiano opportunamente fondato l’Ecole de guerre economique, comprendendo prima e meglio di noi la necessità di attrezzarsi con strumenti nuovi di intelligence e di azione per la conquista del loro spazio economico nel mondo contemporaneo. Ed è ciò che avviene oggi, anche a nostre spese, a volte.
Ecco, questo è un tema interessante. La Francia non è solo un nostro vicino, ma ha fondato con noi quella che è diventata l’Unione europea, è un nostro alleato nella Nato, eppure è anche un nostro concorrente, soprattutto nell’ambito Mediterraneo. Lo abbiamo visto in Libia, lo vediamo in relazione ai rapporti con l’Egitto.
Nelle relazioni internazionali non vi è nessun fine comune che possa bloccare in maniera permanente la spinta di ogni Paese a perseguire il proprio interesse nazionale. Nemmeno l’Occidente, purtroppo, può contare su un fattore di coesione sufficientemente forte da sovrastare gli istinti più bassi, gli egoismi nazionali, la ricerca di vantaggi per la propria nazione, anche a discapito dei propri vicini, amici ed alleati. Il sovranismo, che non è altro che il vecchio nazionalismo con un nuovo nome, è l’espressione politica gretta, ma anche la più schietta, di questa crisi regressiva delle democrazie occidentali. Questo non significa che non possa esservi la lungimiranza, la volontà e capacità politica di saper rinunciare a qualche egoismo e vantaggio immediato per difendere in un grande progetto comune i valori dell’Occidente, la democrazia e la libertà, oggi più fragili che mai. Non esisterebbe l’Unione europea sei i politici che nel 1951 fondarono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio non avessero conosciuto le barbarie della Seconda guerra mondiale, e capito che bisogna essere disposti anche a sacrificare qualcosa per conquistare un grande obiettivo comune come la pace e la prosperità dei popoli europei. Questo grande obiettivo, che oggi significa anche difendere un sistema di valori e una visione del mondo, a mio parere richiede proprio il rilancio ed il rafforzamento dei due più grandi progetti politici dei decenni passati: l’Unione europea e l’Alleanza atlantica.
Dopo la tempesta del Covid crede che sarà ancora possibile rafforzare l’Unione europea e la Nato?
Certamente questa crisi globale evidenzia in maniera più netta e accentuata alcune fragilità del contesto globale: dalla debolezza delle istituzioni internazionali, alla scarsa collaborazione tra i grandi Paesi, dalla diffidenza reciproca al risorgere dei muri dei nazionalismi. La pandemia ha nei fatti accentuato la polarizzazione tra i due possibili scenari futuri: il primo vede un inasprimento della frammentazione e della conflittualità a livello globale, il secondo l’apertura di una nuova epoca di dialogo e cooperazione. Le democrazie occidentali escono indebolite da questa drammatica prova e rifiutano di chiedersi perché nelle società più ricche ed avanzate il contagio abbia prodotto danni così profondi, colpendo una società più liquida, fragile e precaria, e quindi povera di anticorpi sociali, di quanto si immaginasse. La magnitudo politico-economica della crisi sarà destinata a rilasciare le proprie vibrazioni molto a lungo, anche più a lungo rispetto all’impatto del virus sulla nostra salute. L’onda lunga ha natura intrinsecamente globale e può durare per generazioni. Per queste motivazioni la buona politica non può che puntare sull’ottimismo della volontà: una crisi drammatica offre l’opportunità di scelte avanzate, che in condizioni ordinarie non ci sarebbe il coraggio di fare, e sono fiducioso che il nuovo Presidente americano intenda marciare in questa direzione. La pandemia è come una mina posta alle fondamenta di tutto l’edificio del vecchio ordine mondiale. Ora bisogna costruirne uno nuovo e l’Occidente non può affrontare diviso questa sfida, se non vuole subire il cambiamento, invece di governarlo. L’Alleanza atlantica e l’Unione europea, insieme agli Stati Uniti, rappresentano l’ossatura dell’Occidente, il presidio che garantisce i valori in cui crediamo, se li rafforziamo possiamo essere insieme la grande potenza che riorganizza il campo in modo equo, difende libertà e diritti umani e costruisce la pace, se saremo divisi dovremo rassegnarci al nostro ineluttabile declino.
Intervista pubblicata su Europa Atlantica